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Complimenti agli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara, ad Anna Quarzi e Fiorenzo Baratelli, per il ciclo di conferenze sul tema “La democrazia come problema”, presentato in biblioteca Ariostea lo scorso 23 gennaio. Un calendario di appuntamenti che promette di tenere ben desto un uditorio che si auspica numeroso. Sull’argomento ho trovato interessante un saggio di Francesco Tuccari pubblicato da “Il Mulino” (6/2014), che provo a seguire e sintetizzare.

Il problema oggi della democrazia è che quote crescenti del “potere decisionale” sono sottratte ai parlamenti, governi, leader democraticamente eletti e si trovano nelle mani di forze impersonali, anonime, che agiscono su scala globale, oltre e fuori da ogni meccanismo di consenso e di legittimazione.
Da un lato, la forza dei mercati e della finanza internazionale, dall’altro sfere, agenzie e tecnostrutture di natura sovrastatale (spesso si punta il dito sulla burocrazia Ue).
In sostanza, stiamo da tempo assistendo ad una radicale ristrutturazione degli “spazi politici” e questo pone interrogativi sulla democrazia e sul suo futuro come sistema delle decisioni, del governo e della stessa vita sociale. Interrogativi inquietanti perché sono gli effetti di questi processi a preoccupare per le sorti della democrazia.
Effetti che sono di due tipi. Il primo è un processo di progressiva leaderizzazione della politica – e dei partiti – basato sul ruolo di singole personalità con forti pulsioni direttistiche. Il secondo, è uno svuotamento del gioco democratico a causa dell’intromissione sempre più invadente della “Mano invisibile” degli spread, dei rating, degli indici di Borsa (quante volte si sente dire che i mercati non hanno gradito certe decisioni dei governi).

Da una parte, quindi, l’iperdemocrazia del capo e dall’altro l’ipodemocrazia dei mercati.
Oppure, per un verso le pulsioni populiste, demagogiche e plebiscitarie della democrazia del capo e per l’altro il pericolo di una democrazia acefala. Sullo sfondo rimane il “demos”, rispetto al quale ambedue queste spinte hanno sempre meno a che fare. Tanto che il pericolo avvertito è di uno scollinamento, più o meno prossimo, verso un contesto post-democratico.
Paiono lontani i tempi nei quali, a seguito della caduta del muro di Berlino, si parlò di “Fine della storia” (Francis Fukuyama), come campo libero verso un processo di definitiva e compiuta democratizzazione. In realtà il mondo globale uscito dal disegno di Yalta sta presentato il conto di nuovi sviluppi su vasta scala.

È l’evoluzione di una società di massa individualizzata, egoista, atomizzata e spoliticizzata (il dato dell’astensionismo), nella quale si affievoliscono le solidarietà lunghe e in cui è sotto gli occhi di tutti la crisi delle rappresentanze come finora le abbiamo conosciute.
Ai tradizionali mondi di appartenenza si sostituiscono comunità piccole, chiuse, gelose, basate su dinamiche identitarie di tipo esclusivo, come contrario di inclusivo, e con perimetri etnici (e anche religiosi) anacronisticamente definiti. Venendo meno, quindi, le storiche articolazioni delle società, esse diventano più vulnerabili ai richiami carismatico-plebiscitari di chi fa appello direttamente al popolo.
Gli stessi mutamenti nei processi di formazione della cosiddetta “opinione pubblica” stanno lasciando il segno. La televisione, prima, e internet, ora, sono due esempi di come avesse ragione Marshall McLuhan a dire che il messaggio è in realtà il medium.
Euforicamente (forse troppo) nati con l’intenzione di emancipare e ridurre le distanze, in realtà stanno finendo per isolare, con la prerogativa che società d’individui molecolari sono più plasmabili.
E così si definisce lo stesso concetto di “Democrazia del pubblico”.
Il discorso della politica si contrae, si spettacolarizza sintonizzandosi sui desideri di un pubblico spettatore. Alla riflessione e all’analisi di un tempo subentrano le tecniche di marketing, di sondaggi e di comunicazione; il respiro della politica si fa poco più che un cinguettio. Tanto è vero che, si dice spesso, per vincere le elezioni la politica deve parlare alla pancia, più che alla testa degli elettori.
Ne conseguono un demos indebolito, più tentato da reazioni emotive più che dalla fatica del conoscere e pensare, e una politica istantanea: vedi la frenesia del “mi piace” della twitter-facebook democracy, o il sistema informatico-grillino di consultazione perennemente simultaneo.
Ma, forse, la più travolgente trasformazione è quella che sta disarticolando le democrazie in senso acefalo.
È l’incontrollata e incontrollabile forza immateriale dei mercati e della finanza che sta creando nuove colossali diseguaglianze che, usando un antico vocabolario, potremmo definire di “classe” tra capitale e lavoro, tra occupati e disoccupati e, ancora, tra globali e locali, cittadini e stranieri, giovani e vecchi …
La progressiva perdita di sovranità degli Stati per effetto della globalizzazione, li rende di fatto disarmati a controllare, a contenere, a governare, le turbolenze prodotte dallo strapotere dell’economia e della finanza.
Viene meno, cioè, quell’ultimo argine che fino a ieri era in grado, usando il linguaggio della cultura socialdemocratica e liberal, di tosare la lana della pecora capitalista.
Così non sono più soltanto i cittadini elettori-spettatori-consumatori ad essere espropriati, ma pure la politica, i partiti e i loro leader, i governi, gli stati e la stessa democrazia, ad essere ridotti a “province amministrative” di un impero che pare non avere più limiti di conquista.
In sintesi, le democrazie del XXI secolo sembrano maledettamente esposte alle tempeste plebiscitarie e acefale, proprio perché i luoghi e gli spazi della politica non coincidono più con i flussi e le spinte che oggi governano i poteri reali del mondo globale.

L’impressione è che se si vuole dare nuovi contenuti e orizzonti alla democrazia, occorra risolvere alla radice questo problema, al centro del quale c’è il compito della politica di ritrovare la capacità di essere quell’argine di contenimento delle inequità (come ha scritto papa Francesco nella Evangelii Gaudium), nel frattempo venuto meno.
Un argine da ricostruire in una geografia profondamente cambiata e che non può più essere quella del vecchio Stato nazionale, travolto dalla piena dalla storia.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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