11.770 letture al 27 agosto 2016 (Pubblicato l’11 febbraio 2016)
Sono d’accordo con Carlo Bassi, mio vecchio amico, famoso architetto e raffinato scrittore: Ferrara è città stupenda e non vale avanzare argomentazioni contrarie, che non stanno in piedi. Ma devo pur avere il coraggio di affermare che Ferrara è brutta, sia chiaro non dal punto di vista estetico e artistico, no, ma dentro l’animo suo, chiuso, spesso codardo, cinicamente arido, incapace di alzarsi sulla punta dei piedi e osservare il mondo esistente oltre le mura, erette da Estensi e da quegli oscurantisti che erano i cardinali legati, proprio per impedire agli abitanti di uscire dalla città e andare a vedere com’è fatta la realtà umana.
Ferrara vive in un mondo tutto suo, ben poco scalfito dalla comunicazione globale. D’altra parte, perchè avrebbero costruito mura così alte? Se lo domandava anche il grande scrittore francese Rabelais, il quale fa dire al gigante Gargantua che Parigi ha cittadini così bellicosi da rendere inutili mura alte “come quelle di Ferrara”. Dell’ignobile e cieca politica estense fanno fede, per esempio, le leggi imposte a Comacchio, che impedivano ai poveri abitandi di uscire dalla città se sprovvisti del lasciapassare del governatore. Ancora adesso i comacchiesi odiano i ferraresi e forse non hanno torto. Ha queste due facce Ferrara: è letterariamente bifronte come Giano, pronta a mettersi in ginocchio davanti al nuovo padrone, ma predisposta a ucciderlo quando cambia il duce. Una malattia endemica, ma qui pronta a diventare fenomeno morboso acuto. I ferraresi dettero prova di questa loro peculiartità verso la fine della seconda guerra mondiale, quando col Fascismo ormai alla fossa cambiarono bandiera, riproducendo uno sketch di un film dell’allora famoso attore comico americano Red Skelton: durante la guerra di secessione, su un bel cavallo bianco, passa attraverso le due linee nemiche con una bandiera doppia, da una parte quella sudista, dall’altra il vessillo degli yankees a stelle e strisce, così da trovarsi sano e salvo alla fine dei due schieramenti. La bandiera ferrarese ha avuto spesso due facce: gli Este un giorno con il papa e un giorno con l’imperatore, così capitò che non venissero presi sul serio se non in circostanze del tutto particolari, per esempio quando c’era bisogno di soldati da mandare alla guerra con navi e cannoni. Dice: ma allora i ferraresi non camminano con la schiena dritta? E’ una posizione che gli fa un po’ male in verità. Tant’è che quando per strada incontri un conoscente, o addirittura un amico, che non vedi da tempo, capita che se lui ti scorge in tempo si mette a guardare una vetrina o addirittura cambia strada: evidentemente teme che tu gli chieda qualcosa, non si sa mai. Una volta Benvenuto Cellini, chiamato a lavorare a Ferrara, dove ha lasciato alcune stupende sculturine, scrisse alla moglie “ferraresi gente buonissima et avarissima “. Lo si vede ancora oggi nel mondo dell’economia, dove i ferraresi occupano piccolo spazio, non amano essere riconosciuti, non vogliono apparire, in questo non sono certo milanesi o buscai. Questa è la legge sotto le Quattro torri: è bene che nessuno sappia quanti soldi hai in banca. I loro affari vanno sempre male e, appena si accorgono dell’approssimarsi di difficoltà, si vende. I negozi chiudono e non riaprono, non c’è mai nessuno che abbia voglia di rischiare: è la crisi, dice, no, sono i ferraresi.
I ferraresi sono ferraresi e quando vedono un concittadino che emerge dalla palude, zac, gli tagiano testa e gambe: “’sa vol quell lì?” Il parlare sarcastico del ferrarese non sempre è intelligente ironia, spesso invece è insopportabile e gratuita presa in giro, tagliente ma inaccettabile, tanto più che non di rado maschera non dico odio, ma antipatia sì, e un chiaro desiderio di umiliare, anche l’interlocutore amico. Un atteggiamento ereditato dalla plebe di un tempo senza, tuttavia, la cordiale ironia di Bertoldo: “ciò, ca tierna al colera, cum stat?”, e la risposta : “A stagh ben ca tiena un’azident”, erano questi i saluti complimentosi che si intrecciavano per le strada, “e tò mujèr, ca t’iena al badech?”. La gente ora si saluta sempre meno, ci siamo imborghesiti, il popolo non esiste più, la collera che un tempo di tanto in tanto provocava laceranti scontri, adesso si esaurisce in solitarie imprecazioni. Dietro di noi non ci sono più i partiti del popolo, pronti a difenderci dalle soperchierie, il potere può fare quello che vuole ché ha sempre ragione. Non c’è più nemmeno un organetto di Barberia a intonare “Bandiera rossa”, è sparito anche lo zingarino che suonava la tromba e a cui avevo insegnato proprio bandiera rossa, la suonava male, ma la suonava.
Arrivato a questo punto della mia forse spocchiosa requisitoria, ho pensato che forse stavo esagerando, così sono uscito per fare due passi, ma giunto davanti alla cattedrale ho visto sopra il portale, appeso uno stendardo, la figura di un uomo barbuto con sopra la scritta: “Il Pellegrino dell’assoluto”. Chissà che cavolo vuol dire? Sotto altra spiegazione: è uno dei santi di casa d’Este. Mah, che gli estensi fossero in grado di dare alla luce anche santi oltre che assassini mi giunge strano, ma tant’è, siamo a Ferrara, siamo pellegrini del relativo. Sta diventando simpatico questo vescovo.
Leggi la prima e la seconda parte di Vita e agonia di Ferrara.
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Gian Pietro Testa
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