PUNTO DI VISTA
Vita e agonia di Ferrara (al tempo del razzismo)
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“Allora – mi fa l’amico che incontro al solito bar, da anni diventato il mio ufficio – allora, la Cassa di Risparmio ti ha restituito le tue 50 lire?”
Lo guardo male e poi gli dico che se mi volessero restituire quell’antico mio credito non avrebbero mai commesso il furto ai miei danni. “Vuoi dire che Ferrara è ladra, oltre che razzista come si sta insinuando su un quotidiano cittadino?”
“Voglio dire – gli rispondo – che Ferrara è una strana città”, i suoi cittadini sono razzisti, certo, ma il razzismo è un male che cresce vigoroso nella Valle Padana. Ricordo che quando arrivai a Milano, i cartelli appesi alle porte delle case facevano sapere in bei caratteri alti e neri che “Non si affitta a meridionali”. Quei cartelli mi inorridirono, mai nella rossa Ferrara un cittadino si sarebbe permesso una simile confessione di razzismo. Ma allora Ferrara aveva davvero un cuore rosso. Con quel cuore Ferrara era cresciuta, era diventata la città di provincia più colta d’Italia, Palazzo dei Diamanti era conosciuto in tutto il mondo per le grandi mostre d’avanguardia, gli artisti italiani, europei, americani, anche orientali non si dichiaravano arrivati se non riuscivano a ottenere da Franco Farina l’ok per una personale. Nel cinema erano cresciuti, a livello internazionale, Michelangelo Antonioni e Florestano Vancini (solo per citare i più famosi), mentre ardevano di sacro fuoco i giovani, e non più giovani, intellettuali, molti dei quali si aggregavano al carro di sinistra per fare carriera, ma spesso pronti a far garrire altre bandiere.
Il fatto è che, a leggere attentamente la storia, ci si accorge che mano a mano che sbiadiva il cuore rosso, diminuiva anche l’orgoglio civile della città, la quale riscopriva vecchi stilemi sociali sui quali adagiarsi e tra questi il più comodo di tutti per persone stanche di pensare era l’indolenza, imbottita di acquiescenza, di remissività culturale, di accettazione. La Sinistra veniva lentamente espulsa dal cerchio del potere, mentre avanzava una “cultura” di Destra riveduta e corretta, il buco rivoluzionario del dopoguerra andava riempendosi. Il giorno dopo l’eccidio del Castello il nuovo federale Vezzalini fece rimbombare la sua voce in tutte le plaghe ov’era esposto il gagliardetto nero: “Ferrarizzare l’Italia”, tuonò il terribile condottiero repubblichino (scusate, ho usato l’aggettivo dispregiativo, ma oggi gli storici dicono repubblicano e il loro animo si placa). Bene, non c’è stato bisogno di audaci colpi di mano o di altre stragi, bastavano i circa duecento morti e i 900 feriti del terrorismo di estrema destra per addomesticare le docili coscienze italiane e ferraresi, il potere dispensava panem et circenses: che vuoi di più? L’ignoranza demente di questi giorni aveva agio su ogni altra urgenza, finché un mattino (ora debbo essere un po’ volgare come in un film-commedia italiano), dopo aver finito di leggere i quotidiani, locali e no, molto sorpresi abbiamo esclamato: “cazzo, siamo fascisti!”
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Gian Pietro Testa
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