“Vita agli arresti
di Aung San Suu Kyi”,
dal 18 novembre al 14 dicembre
al Teatro Rasi di Ravenna
Tempo di lettura: 2 minuti
da: Teatro delle Albe
di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli e Ermanna Montanari con Ermanna Montanari,
Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu incursione scenica Fagio
musica Luigi Ceccarelli spazio scenico e costumi Ermanna Montanari
luci Francesco Catacchio, Enrico Isola montaggio ed elaborazione video Alessandro Tedde, Francesco Tedde realizzazione suono Edisonstudio Roma foto di scena Enrico Fedrigoli regia Marco Martinelli produzione Teatro delle Albe – Ravenna Teatro
in collaborazione con ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione
Inizio spettacolo ore 21, domenica ore 15.30. Riposo il lunedì e il giovedì
“Tutto parte dalla domanda con cui si apre questa Vita: è distante la Birmania? Evidentemente no. È ‘poco lontano da qui’, come ogni luogo del pianeta. La Birmania nella nostra Vita è una maschera per parlare anche di noi. Si racconta il lontano per trovarlo sorprendentemente ‘prossimo’.
C’è qualcosa di scandaloso nella vita di Aung San Suu Kyi: la mitezza d’acciaio, la compassione, la ‘bontà’, un termine che avrebbe fatto storcere il naso a Bertolt Brecht. La nostra Vita è anche un dialogo con Brecht, con quella Anima buona del Sezuan che qualche anno fa volevamo mettere in scena. Non lo facemmo allora, e questa Vita ci ha spiegato anni dopo il perché. La ‘bontà’ intesa come la intende Aung San Suu Kyi, e come prima di lei una teoria di combattenti, da Rosa Luxemburg a Simone Weil, da Gandhi a Martin Luther King, da Jean Goss a Aldo Capitini, (più i tanti, innumerevoli ‘felici molti’ di cui ignoriamo il nome), è scandalo in quanto eresia, ovvero, etimologicamente, scelta: si sceglie di non cedere alla violenza, alla legge che domina il mondo, si sceglie di restare ‘esseri umani’: nonostante tutto.
Interrogarci sulla vita di Aung San Suu Kyi ha significato interrogare il nostro presente: cosa intendiamo per ‘bene comune’? Per ‘democrazia’? Cosa significano parole come ‘verità e giustizia’? Ha senso usare queste parole, e come? Non sono ormai usurate, sacrificate sull’altare della chiacchiera dei media? O hanno senso proprio partendo dalla volontà di un sereno, paradossale, gioioso ‘sacrificio di sé’? Di un silenzioso, non esibito eroismo del quotidiano? Di un cercare nel quotidiano ‘ciò che inferno non è’, e dargli respiro, spazio, durata?”
Marco Martinelli

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