Riassumere tre giorni di manifestazioni in poche righe è cosa ardua. Lo è ancor di più se la mole di informazioni avute è tale da rendere questa operazione quasi impossibile. I colori, i volti, le parole, i gesti di chi, per tanti motivi si è ritrovato sotto la bandiera della contromanifestazione chiamata ‘G7M: ambiente alla base e non al vertice’. Additati con tanti sostantivi, dal più semplice ‘no-global’, alle odierne coniature giornalistiche tra le quali svetta il termine ‘antagonisti‘. Ma contro cosa lottano questi ragazzi e ragazze?
Il viaggio nel mondo dei ‘no’ ha inizio venerdì 9 giugno, è questo il giorno che dà inizio alle danze: si apre il sipario su workshop, flashmob, tavoli di discussione e svariate attività. Le zone di concentramento sono due, ma la principale è nel Parco 11 settembre 2001, poco distante dalla ‘zona rossa’ del centro cittadino. Il mondo di questi attivisti è svariato, variopinto, ma quasi tutti i cartelli iniziano con la stessa parola: no. No alle trivelle, no al G7, no alla Tav, no al carbone e altri no che non sto nemmeno a elencare.
Venerdì 9 giugno
Venerdì la partenza è in sordina: all’arrivo nel parco pochi volti, qualche banchetto di associazioni qui e là, gente che sembra lì più per prendere un po’ di sole che per organizzare una contro-manifestazione, come la chiamano loro. Uscendo però da questo luogo e dirigendosi verso il centro, tutto cambia. Si inizia a sentire la presenza delle forze dell’ordine in una Bologna particolarmente blindata. Arrivato in piazza Maggiore cambia il registro anche visuale dei partecipanti: dai ‘dread’ si passa ai capelli ben tagliati, dalle magliette con scritte di protesta si va agli smoking e tailleur, e, soprattutto, dai no si passa ai sì. Il tavolo che si sta aprendo qui scotta parecchio e tra qualche ora si dovrà ridiscutere del destino ambientale del pianeta, soprattutto dopo l’abbandono di Trump dell’accordo di Parigi. Piazza Maggiore sembra un fortino, con militari su ogni angolo, anche l’arrivo del ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti è annunciato più dal rinforzarsi degli agenti in borghese, che dagli organizzatori. Qui si coglie poco però di quello che sta succedendo: cerimonie ufficiali, sorrisi diplomatici e strette di mano. Non è questo che volevo raccontare. Tornato al parco la situazione non è cambiata: poca gente, troppo caldo. Il primo giorno della mia gita in questa terra dei no passa così.
Sabato 10 giugno
Il sabato decido di andare già dalla mattina, non vorrei perdermi nulla di quello che succederà. Arrivato nuovamente nel Parco 11 settembre la situazione è ben diversa rispetto al giorno prima: più gente, più attività, più banchetti. Decido così di passare qualche ora di nuovo in centro per poi riscendere definitivamente qui. Incappo in una biciclettata di protesta, il primo gesto ufficiale: un flashmob contro la banca Carisbo, sono una trentina. Di lì a poco srotoleranno uno striscione contro Intesa san Paolo, a parer loro responsabile di finanziare gli investimenti che stanno portando alla realizzazione dell’oleodotto nel North Dakota, a danno delle popolazioni indigene locali dei Sioux. Il centro è meno blindato del giorno precedente e dopo poco tempo ritorno al parco.
La giornata qui è stata intensa. La mia voglia di capire i perché di questo contro-vertice ha avuto parzialmente risposta. Le motivazioni principali sono state spiegate da svariate associazioni, ma il punto cardine si è incentrato su alcune parole fondamentali: decrescita, disinvestimento, tutela dell’ambiente, rapporto con i mass media. Su quest’ultimo tema le voci sono state tante, ma univoche: la gran parte dei giornali scrive senza conoscere i fatti o, peggio ancora, scrive attaccando i protestanti ricevendo finanziamenti da questa o quella azienda. Durante questo durissimo attacco sono rimasto in silenzio anche se alcune perplessità mi sono sorte, le da due principali: sono stati invitati giornalisti per rispondere a queste accuse? Il problema è chi scrive inesattezze o chi legge e non se ne rende conto? Solo l’agenzia di stampa ‘Pressenza’ era lì: ha parlato delle proprie attività e di come nelle proteste dei Sioux si respiri, oltre alla solita aria di manifestazione, anche un certo alone di spiritualità, ma alle accuse non ha risposto, ne per confermarle ne per smentirle.
Mi ha colpito anche l’aggressività di alcuni interventi, anche se il titolo della conversazione rimandasse proprio alla ‘non-violenza‘. E c’è chi ha parlato di reporter di guerra, adducendo che la loro bravura era direttamente proporzionata ai buchi di proiettile nelle gambe. Non è un caso: per gli ‘antagonisti’ questa è una guerra vera e propria contro i cambiamenti climatici.
Dopo gli interventi di altre associazioni ‘no’, come i ‘No-Tap’ pugliesi, la parola è passata a Raphael Gonzales: lui è la testimonianza diretta di quello che sta succedendo in North Dakota e gira il mondo per raccontare delle proteste fatte e dei maltrattamenti subiti dalla polizia. Non un accenno sulla spiritualità però, solo pragmatismo e testimonianze di ciò che lui e chi sta al suo fianco hanno fatto per contrastare tutto ciò. La giornata, almeno la mia, si è conclusa con un intervento che mi ha lasciato turbato. Ha preso la parola, facendo fare un mini tour tra diversi cartelloni, un meteorologo che ha spiegato come si formano, come agiscono e quali sono le conseguenze dei gas serra e i derivati cambiamenti climatici a seconda delle loro percentuali. Lo ha raccontato con un sorriso macabramente ironico. Lui ha detto di essere un ottimista e che una speranza c’è, ma dalla sua bocca sono uscite parole che suonavano come condanne a morte. In pochi forse avranno capito alcune spiegazioni e c’è chi ha lamentato anche il fatto che gli scienziati debbano parlare alla pancia della gente prendendo in esempio Salvini (si, quello della Lega Nord). Il povero malcapitato meteorologo ha cercato di spiegare che alcuni argomenti sono complessi, e che quindi necessitano di un linguaggio complesso. Avrei voluto soccorrerlo, ma ero lì solo per osservare, non per interagire. Finita la disamina il mio spirito non ha potuto sopportare altro. Ho deciso di andar via e di tornare l’indomani, ultimo giorno, per il corteo finale.
Domenica 11 giugno
Domenica è una giornata caldissima, di quelle che solo questa pianura ti fa affrontare. L’arrivo al Parco 11 settembre mi presenta una nuova scena: molta più gente, ma divisa. Tanti piccoli ‘clan’ uniti sotto i propri vessilli di protesta, tutti distinti, c’è chi ha addirittura delle magliette che richiamano delle associazioni per non confondersi con gli altri. Il caldo picchia su tutti e tutti cercano riparo prima della partenza. Aggirandomi fra loro sento qualcuno dire – quasi in un atto di preparazione alla battaglia – di “restare uniti”, di “non mischiarsi con gli altri” sventolando la propria bandiera di protesta. Non so più se sono in un campo per manifestare contro il G7 oppure ad una rievocazione storica romana, con ogni legione sotto il proprio stendardo.
Decido quindi di uscire e osservare come la città si sta preparando al corteo. Appena pochi passi fuori e ci si imbatte in un contro-corteo, ma fatto di agenti, polizia in gran parte. Il numero mi lascia stupito: sono moltissimi, sia in assetto anti-sommossa sia in borghese. Mi chiedo se ci sia anche la paura verso il terrorismo dietro questa scelta, o se ci aspettasse molta più gente. Scelgo di rimanere nei loro paraggi per fotografare l’arrivo del corteo in quelle zone, inizia l’attesa. Orario di partenza previsto alle 15. Alle 15.30 un agente si avvicina a me e al fotografo di redazione per scherzare sul caldo. Ore 16, del corteo neanche l’ombra. Inizio a pensare che i manifestanti lo stiano facendo di proposito: gli uomini in divisa avrebbero di certo gradito di più qualche insulto, invece di stare un altro minuto sotto il sole con il pesante armamento. C’è chi cerca l’ombra sotto un portico, chi fuma nervosamente una sigaretta, chi, colpendo l’orologio, chiede dove siano questi manifestanti. Alle 16.30 decido di tornare e verificare cosa stia succedendo. Sembra non più una manifestazione ma un gran concerto, sta iniziando l’assembramento vicino al camioncino che manda musica ad alto volume e che farà da apertura al corteo. Iniziano a srotolarsi striscioni, c’è chi balla, chi cerca ancora un po’ di ombra. Sorrido nel vedere tutti, o quasi, i giornalisti appollaiati sotto un albero, in attesa della partenza, ma avvicinandomi resto basito dal discorso di due di loro, che può essere riassunto con una frase: “speriamo che almeno succeda qualcosa di buono”. Il tono era chiaro e se a questo si unisce la triste massima “bad news is a good news” si può ben capire a cosa stesse facendo riferimento. Tutta questa scena mi rende davvero insofferente e, vuoi per il caldo, vuoi per il ritardo, decido di andar via proprio mentre il corteo parte. Non voglio raccontare di eventuali scontri, non sono lì per questo, qualche risposta che cercavo l’ho già trovata nei giorni precedenti, soprattutto nelle parole del meteorologo, del quale, purtroppo, non sono riuscito a sapere il nome.
Tornato a Ferrara cerco di fare mente locale su questa tre giorni vissuta tra chi crede di poter cambiare il mondo, tra chi una speranza perché le cose vadano meglio ce l’ha, tra chi, sotto questo o quel vessillo, dice no a tante cose, anche se a volte più per partito preso. Insomma tante sfaccettature come è giusto che sia in un mondo che non è il mio, ma che apprezzo soprattutto perché lì c’è chi, e gli si legge negli occhi, ha una vera speranza in un mondo migliore. Ma su tutto, tre cose porterò con me di questo G7 bolognese: i tre labrador del mio amico disoccupato, il sorriso del meteorologo e i ghiaccioli mangiati dai poliziotti in attesa.
Il servizio fotografico è di Valerio Pazzi
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Jonatas Di Sabato
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