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San Pietroburgo è una delle città più visitate al mondo. Io stesso l’ho visitata qualche mese fa e sono rimasta affascinata dalla sua storia, dalla sua arte, dalla sua cultura e dalla sua bellezza. Ma, grazie a questo film del 2013, “The age of Kommunalki”, trovato mentre cercavo informazioni sulla città, ho scoperto, con immenso stupore, che, dietro le splendide facciate da cartolina del centro, realizzate da alcuni dei migliori architetti dell’epoca, si nasconde un mondo particolare, sconosciuto alla maggior parte dei visitatori: il mondo dei “kommunalki”, le case comuni. La parola mi era nota da alcuni romanzi (li avevo trovati in “A Mosca, A Mosca!” di Serena Vitale o nel più recente “Tra le mura del Cremlino”, di Paul Dowswell), ma non mi ero mai veramente avvicinata a questa realtà.

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La locandina del film

Si tratta di un altro mondo, particolare, diverso, terribile, ostico e duro, per certi aspetti, curioso, interessante, sorprendente, umano, caloroso, protettivo e familiare, per altri. Ancora oggi, a quasi 100 anni dalla rivoluzione di ottobre, molte persone di diversa estrazione sociale e provenienza, vivono insieme, occupando stanze all’interno di grandi appartamenti e condividendo spazi comuni come una cucina, servizi igienici, un bagno e un corridoio. Gli abitanti di questi ambienti hanno provato sulla loro pelle le conseguenze del tentativo di calare nella quotidianità un concetto utopico, quello della “vita in comune”, che nel periodo sovietico richiamava il pensiero di Tommaso Moro o di Tommaso Campanella. Proprio questa constatazione sarà il punto di partenza, oltre che il filo conduttore, per una riflessione sul significato moderno di comunità, di relazioni umane, e sulla trasformazione sociale ed economica che sta investendo le città stesse.

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Una seconda locandina

Il film-documentario che vi consigliamo questa settimana dunque, è girato interamente a San Pietroburgo, nel 2012, città che, a quella data, ospitava ancora 101.303 kommunalki, nei quali in cui vivevano e vivono 660.000 persone. Un abitante su nove, quelli che vengono chiamati i “podselentsy”, gli inquilini. E parla di questa difficile vita in comune.

Il film, ricco tanto dal punto di vista storico che umano, inizia con l’intervista a uno dei protagonisti principali della storia, che è del tutto reale, Aleksey Khashkovsky, che ci presenta l’edificio nel quale si trova l’appartamento che percorreremo, un bellissimo palazzo aristocratico, costruito nel 1906, dove, prima della rivoluzione, avevano vissuto anche il famoso poeta Michael Kuzmin, il cantante lirico Fëdor Ivanovič Šaljapin o artisti del Mariinsky e il cui proprietario era stato anche il famoso matematico Andrey Alekseevich Kiselev. Durante la rivoluzione bolscevica l’edificio era stato requisito e trasformato in “kommunalka”, uno spazio di vita in comune, partendo dall’idea che la convivenza faceva parte dell’ideologia politica dell’epoca, una maniera, per lo Stato, di retribuire i suoi operai con un alloggio, sempre vicino al luogo di lavoro, la fabbrica. La mancanza degli alloggi a Leningrado aveva aiutato il diffondersi del fenomeno.

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Una scena del film
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La cucina

Il palazzo, in cui ci troviamo per tutto il film, ha 9 stanze, in una superficie di 346 m2, e ospita 20 persone. C’è chi viene e c’è chi va. Vi sono due servizi igienici, un bagno e una cucina grande. Qui ognuno ha il suo tavolo per evitare discussioni, vi sono due cucine a gas con due fornelli per famiglia, per aver la possibilità di cucinare tutti allo stesso tempo. In questo luogo comune si parla, si discute, si controlla il piatto del vicino che cuoce e lo si avverte se sta bruciando o se è troppo cotto, qui si beve il tè tutti insieme. Si festeggiano insieme anche le ricorrenze, come i compleanni o gli anniversari, si cucina solo dopo che si è tutti usciti per andare al lavoro. Nel bagno, si hanno a disposizione 15-20 minuti a testa per lavarsi, non ci si trucca mai in questo locale, o si perde tempo prezioso per gli altri.

 

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Larisa Gromova

La toilette è separata, comune anche quella, si fa la fila per usarla. Tutti in rigorosa e rispettosa attesa. La casa, però, era pensata, originariamente, per gli aristocratici, con una sala da pranzo e una per la servitù che la usava come luogo per la preparazione e la distribuzione del cibo: non è, quindi, adatta all’utilizzo passato e attuale dei “kommunalki”. Nel 1957, vi abitavano 33 persone, in una sola stanza stavano anche 8 persone. Nello stesso vano, si possono ritrovare una macchina per cucire, la zona notte, una cyclette, un frigorifero e un tavolo. Una mini-casa in un mini-spazio. Tatyana Sigolina ha un piccolo e curato camino e dei bei fiori bianchi profumati, nel suo angolo di vita.

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Lilija-Elizaveta Alexandrova,

All’inizio, sono tutti estranei ma, poi, si deve diventare più attenti al prossimo, alle diversità culturali e bisogna trovare un linguaggio comune. Ci vogliono pazienza, resistenza, forza di superare le difficoltà, ma alla fine si diventa amici intimi, ci si rispetta e… non è così male… ammettono i giovani amanti del rock Evgeny e Pavlov.
Ci si aiuta nelle emergenze, non si è mai soli, nel bene e nel male. Gli anziani raccontano storie ai più piccini, le babushke (le nonne), come Larisa, sono sagge, affettuose, hanno pazienza e rispetto verso gli altri. Tutti aiutano tutti.

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Antonina Kharlamova,

Galina Ilmer confessa che non si può mai stare soli, in un “kommunalka”, ma che, come in famiglia, se si è tristi o qualcosa non va, ci si può sempre chiudere nella propria stanza. Come facevamo da ragazzini quando eravamo arrabbiati. C’è poi anche l’aneddoto carino dell’italiano Roberto, che, all’epoca fidanzato con Julia, poi diventata sua moglie, non comprendeva come si potesse vivere in quel luogo e in quella maniera. Per rassicurarlo, l’anziana amica di Julia aveva iniziato a farsi chiamare da lei zia. Così si sarebbe pensato che si era in famiglia. Ma quando Roberto aveva chiesto dove si gridava il bidè, che ridere…

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Varvara e Ilya Alexandrov

Siamo di fronte a una reliquia di cui liberarsi? Qualcuno pensa proprio di sì. Perché l’idea della comune non ha resistito, l’individualismo dell’essere umano emerge e non perdona. Oggi, in questi luoghi d’altri tempi, rimangono soprattutto gli anziani, con le loro basse pensioni, chi guadagna troppo poco per potersi permettere un appartamento al centro di San Pietroburgo, chi è appena arrivato da fuori, chi subaffitta da titolari del diritto a vivere fra quelle mura. Il titolo acquisito non si perde, mai. Intere famiglie hanno vissuto lì dentro, bambini oggi cresciuti. E se lo Stato ti manda via, ti deve ricollocare.
Sarà pure un’utopia ma è meraviglioso stare nel centro della città, ammette Aleksey, dove con un solo sguardo si vede tutto, dalla cattedrale di San Isacco alla prospettiva Nevski.
Queste case, però, oggi cadono a pezzi, case che sono come organismi viventi, dove tutto è in relazione, dove curarsi seriamente non significa solo badare all’estetica (quindi alle facciate degli edifici) ma anche prestare attenzione al proprio interno (quindi alle strutture delle abitazioni). Lo Stato, tuttavia, a San Pietroburgo come in altre città russe, si preoccupa di preservare il patrimonio storico-artistico nella parte che vede il turista, quella esterna. Questo è, dunque, anche un film- denuncia di tale situazione, del degrado, dei crolli, dei soffitti che stanno marcendo, dei muri che crollano, dei calcinacci che cadono. Come si può vivere in un monumento? Dove sono i restauri, gli interventi necessari e l’Unesco? Si domanda qualcuno.

La proprietà comune è, in realtà, una terra di nessuno. Spesso si occupano spazi con cose inutili per delimitare il proprio territorio, per marcare i propri confini, così come fanno i paesi, così come si fa in guerra. Si tratta di una questione psicologica. Occupando e delineando spazi si esiste. Ma la realtà vera è un’altra, o almeno così dovrebbe essere.
“Il mondo intero è diventato un grande kommunalka. Ci siamo tutti dentro, ogni nazione fa parte di un kommunalka. Anche se in Europa tutti hanno deciso di isolarsi, in realtà convivono in un unico spazio comune. Devi solo imparare a comunicare e a negoziare con gli altri, per vivere e sopravvivere in questo mondo globalizzato”. Ci dice Evgeny Yalovegin, in chiusura. Nulla di più vero e saggio, in questo momento storico così complesso, dove l’orientamento e la via paiono persi.

The Age of Kommunalki, di Francesco Crivaro e Elena Alexandrova, con Aleksey Khashkovsky, Lilija-Elizaveta Alexandrova, Varvara Alexandrova, Ilya Alexandrov, Larisa Gromova, Evgeny Ilmer, Antonina Kharlamova, Evgeny Yalovegin, Tatyana Sigolina, Italia, 2013, 65 mn.

Per informazioni sul film (in russo ma con sottotitoli in italiano) visita il sito [vedi] e quello di Undergofilm [vedi].

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.


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