Potrei dire soltanto terra, pascoli verdi, rocce, vento e mare. Sole, anche, e acqua che rispecchia alberi e cielo. Ma il viaggio non finisce qui, l’Irlanda è tutto questo e anche di più, è la semioscurità di un pub, la fila degli studenti in divisa all’uscita dalla scuola, la prateria con la luce cangiante, il sole nel fiordo, l’odore pungente e acre degli allevamenti nelle fattorie dietro la main street a Moate, è la pinta di Guinness, il salmone affumicato e il pane scuro, il whistle e il bodhran, le pietre dei recinti nell’isola di Aran, le scogliere a Cliff’s Moher…
Ho sentito battere il cuore irish nella solitudine delle valli rocciose del parco del Burren, nella pioggia a Sligo, sulle rive dello Shannon a Clonmacnoise. Un battito che proviene da fattorie isolate dove non si vedono quasi mai gli umani, che si moltiplica in milioni di pulsazioni fra la gente che affolla Dublino in una serata tiepida e rarissima, che risuona all’unisono col respiro dell’Atlantico nella baia di Galway il mattino presto.
Per me in Irlanda va più volentieri chi sa entrare in intimo contatto con la natura nella sua forma ancora non contaminata dalle follie turistiche, chi si fa conquistare dalla sua bellezza fiera e non ostentata, semplice.
Meglio se si è un po’ malinconici, di quella malinconia sottile che fa pensare, che fa vivere gli istanti, che riporta indietro nel tempo, come può accadere davanti ai resti del castello di Kinvarra. Io sono così, e il mio viaggio l’ho vissuto ascoltando il cuore irish.
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Franco Stefani
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