Vent’anni fa l’omicidio di Ilaria Alpi. La madre: “Sono rimasta sola ma combatto per lei”
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di Silvia De Santis
Il 20 marzo 1994 morivano in Somalia, in circostanze ancora oscure, i due giornalisti del tg3 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Dopo vent’anni di muro di gomma, il governo toglie il segreto agli atti. La mamma di Ilaria: “La battaglia per la verità su mia figlia è la mia ragione di vita”.
Correva l’anno 1994. Correva in un’Italia sedotta e strangolata da Tangentopoli, mentre i contorni della Seconda Repubblica si profilavano nell’ombra. Correva a Mogadiscio, in Somalia, trascinata da tre anni nel caos di una guerra civile di fronte cui l’Onu alza bandiera bianca. “Restore hope”, la missione di polizia internazionale avviata nel 1992 per “ridare speranza” a questo Paese sconvolto da una “Cernobyl” politica, ha fallito e disertato il campo già da un anno. I cronisti, invece, non vanno via. Restano a documentare le stimmate del Corno D’Africa dilaniato dallo scontro tra fazioni, scivolato inesorabilmente nell’anarchia.
Ma due di loro, due giornalisti del Tg3, sbirciano dietro un sipario pericoloso. E per questo perderanno la vita: il 20 marzo di vent’anni fa Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono freddati da un commando somalo a Nord di Mogadiscio, in circostanze ancora poco chiare.
Un agguato o un’esecuzione? Il pendolo della giustizia finora non ha mai smesso di oscillare, anche se la decisione odierna del governo di desecretare i documenti del caso Alpi potrebbe determinare, finalmente, una svolta. Dopo vent’anni di indugi giudiziari, di silenzi colpevoli, di indagini mai effettivamente decollate, la verità latita ancora. Mancano i tasselli fondamentali di una nebulosa vicenda che incrocia signori della guerra con colletti bianchi ed imprenditori. Che lascia intravedere Italia e Somalia stretti in un abbraccio velenoso, mortifero. Triangolazioni d’armi in viaggio dall’Est europeo verso l’Italia attraverso la Somalia. Malattie strane, mai viste prima, che aggrediscono il continente nero. Scampoli di territorio che marciscono, terre di contadini e pastori consumate dal veleno. È la terra dei Fuochi africana e Ilaria l’ha intuito, ha studiato e ne ha le prove. In cambio di munizioni, la Somalia bisognosa di alleanze offre non solo denaro ai Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, ma anche la possibilità di nascondere sotto il tappeto di casa propria le scorie dei loro cortili. “Il mio regno per un Kalashnikof”. E così, a bordo di navi, giungono sulle coste africane carichi di rifiuti tossici e nocivi.
Il giorno prima di morire Ilaria era stata a Bosaso, nel nord della Somalia, a parlare con il sultano per avere conferme su quanto aveva saputo. “Devi fare delle ricerche – le aveva risposto lui, rifiutandosi di fare nomi importanti – Devi guadagnarti il pane”. E Ilaria il pane se lo guadagnava: si documentava molto prima di ogni servizio, studiava. Lo faceva sin da bambina. “Era una ragazza come tante. Le piaceva studiare, era brava a scuola, leggeva di tutto. Amava molto i libri di storia e i romanzi”. Nelle parole di sua madre Luciana, nessun lirismo altera il ricordo di Ilaria. “Ha studiato arabo all’Università e ha passato al Cairo tre anni e mezzo per imparare bene la lingua. Era molto curiosa e amava viaggiare. A un certo punto ha fatto un concorso ed è entrata in Rai”.
“Era una persona seria che faceva seriamente il suo mestiere. Era una che andava sui luoghi, incontrava la gente, conosceva le situazioni, cercava riscontri. Forse è per questo che ha perso la vita”. Francesco Cavalli, direttore del premio Ilaria Alpi istituito nel 1995, ha appena scritto un libro, “La strada di Ilaria”, in cui riporta alla luce le trame di questo caso insabbiato dalla giustizia italiana. “Là dove i fatti non sono comprovati, ma restano nondimeno ragionevolmente possibili, è lecito tendere dei fili per cercare di colmare i vuoti” scrive Pietro Veronese nella premessa al libro. E i fili di Ilaria si perdono in Somalia, perciò è lì che Francesco ha deciso di andare. “Negli anni è maturato in me il desiderio di approfondire le motivazioni che stanno dietro a questo duplice omicidio. Sono stato tre volte in Somalia proprio per cercare di indagare sulle stesse piste su cui Ilaria stava indagando”. Ilaria l’ha conosciuta solo nei ricordi e nei racconti dei genitori di lei, Giorgio e Luciana, ma questo non è un buon motivo per indulgere a glorificazioni postume: “Non credo che debba essere raccontata come un santino o un eroe. Non so dire se avesse una marcia in più o una marcia in meno. Sicuramente era una brava giornalista”.
Il giornalismo è una passione che fa capolino nella vita di Ilaria a dodici anni. “Frequentava una scuola sperimentale a tempo pieno e il pomeriggio c’erano dei corsi extrascolastici. Lei aveva scelto giornalismo e se ne andava in giro per il quartiere a fare domande – racconta Luciana -. Chiedeva alle persone che giornali leggevano e perché. Domande da bambina, insomma. Così le è rimasta questa voglia di fare la giornalista”.
Dopo Bosaso, Ilaria torna a Mogadiscio. Il contingente italiano sta facendo le valigie e i giornalisti sono già partiti, ma lei e Miran vogliono restare qualche giorno in più per vedere come evolve la situazione nel Paese subito dopo la partenza dei caschi blu. Lo comunica alla madre Luciana. Non sa che quella sarà la sua ultima telefonata. Poche ore dopo, di fronte all’hotel Amana, dall’altra parte della città, oltre i posti di blocco e la linea verde supervisionata dall’Onu, verrà uccisa brutalmente. Qualcuno le aveva passato un’informazione sbagliata: le aveva riferito che lì c’era il collega dell’Ansa ad attenderla. Ma non era vero. Luciana non ha dubbi, è stata una trappola.
A corroborare l’idea che non si tratti di un incidente, ma che dietro il duplice omicidio sia in atto un piano preordinato lo conferma una serie di misteriose sparizioni: tre taccuini, cinque cassette di materiale girato di Ilaria non saranno più ritrovati. Sparisce anche il suo certificato di morte, ritrovato, prima di perdersi un’altra volta, nel corso di una perquisizione tra le carte di un ingegnere italiano, autore di un progetto per sparare rifiuti sul fondale marino spinti da missili.
Due commissioni parlamentari di inchiesta e una governativa non riescono a dipanare la matassa. Fino ad oggi, per l’omicidio di Ilaria e Miran c’è solo un colpevole, Hashi Omar Hassan, che si è sempre professato innocente. Luciana gli crede. “Ha pagato con 26 anni di carcere perché qualcuno lo ha indicato come membro del commando che aggredì e uccise mia figlia e Miran. Circostanza che lui continua a negare con forza. Io so perché Ilaria e Miran sono stati uccisi. Dopo 20 anni di indagini inutili e faticose, di menzogne, depistaggi, sparizioni, altre morti sospette, ho bisogno solo di conoscere i nomi dei mandanti di quel duplice omicidio. Non li voglio vedere dietro le sbarre. Mi basta guardarli in faccia”. Basterebbe scalfirlo questo muro di gomma, per dare tregua a una battaglia che è diventata una ragione di vita. “Sono quasi quattro anni che mio marito non c’è più. Sento moltissimo la sua mancanza perché andavamo molto d’accordo, e poi perché in quella triste vicenda ci davamo una mano molto affettuosa, molto forte – confessa Luciana, emozionata. – Purtroppo sono sola ora, e devo andare avanti. Ogni tanto passo qualche momento di scoramento, ancora oggi. Però poi mi riprendo, e mi dico che Ilaria, in fondo, è morta. Io, invece, alla mia età sono ancora viva. Se non facessi questo non saprei che cosa farmene della mia vita, alla mia età”.
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