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Ferrara film corto festival

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Se il Pil è un indice in grado di darci un’idea molto semplificata dello stato di salute di un’economia, esso però non è in grado di fornirci un’immagine precisa riguardo il benessere delle persone che in questa economia si trovano calate. Dal 1993 ci gioviamo però del contributo di due grandi economisti: il pakistano Mahbub Ul Haq e l’indiano Amartya Sen, che hanno concepito l’Indice di sviluppo umano Isu (in inglese Hdi: Human development index). La ricerca di un nuovo indice, in grado di offrire una fotografia più appropriata del benessere e dello sviluppo delle popolazioni, fu fortemente incentivato dall’Onu quando, sul finire degli anni ’80, divenuta evidente l’inadeguatezza del Pil a rappresentare lo sviluppo dei Paesi, emerse l’esigenza di un metro di valutazione che tenesse in considerazione, oltre al valore dei beni e servizi prodotti all’interno di uno Stato, anche quello dei capitali naturali che vanno perduti nella creazione di tali valori: si pensi ad esempio al disboscamento o all’insalubrità dell’aria dovuta ad attività industriali massicce. L’Isu considera inoltre il capitale ‘sociale’ di cui le persone possono godere: il tasso di alfabetizzazione e la speranza di vita sono, assieme al reddito, fondamentali nella determinazione di tale valore. L’Isu può fornire valori che vanno da 0 a 1 ed è calcolato in millesimi. Fino al 2009 il grado di sviluppo dei Paesi era dato dal valore assoluto dell’Isu e veniva considerato con questi parametri: da 0,9 a 1 Paesi a Sviluppo Umano Molto Alto; da 0,8 a 0,9 Paesi ad Alto Sviluppo Umano; da 0,5 a 0,8 Paesi a Medio Sviluppo Umano; da 0 a 0,5 Paesi a Basso Sviluppo Umano.
Dal 2010 in poi, tuttavia, si è preferito utilizzare un metro relativo per il calcolo dello Sviluppo dei Paesi, in maniera da avere un’indicazione più chiara sulla loro collocazione nella graduatoria dello sviluppo. Nella statistica il primo 25% comprende i Paesi con tasso di Sviluppo Umano “molto “alto; a seguire: alto, medio, basso. Ebbene negli scorsi due anni il titolo di miglior Paese in cui vivere è andato alla Norvegia, già primo altre 11 volte in passato e sempre nelle prime posizioni della classifica assieme a Giappone, Svezia, Canada, Australia, Islanda e Finlandia. L’Italia si trova al 12° posto, quindi fra i Paesi a Sviluppo Umano Molto Alto, e addirittura al 6° posto per quanto riguarda l’aspettativa di vita.
Tuttavia è da tenere in considerazione il campanello d’allarme che suona per quanto riguarda l’istruzione: il Bel Paese si ferma infatti al 22° posto per indice di istruzione e solo al 30° posto per qualità dell’insegnamento e risultati raggiunti raggiunti in termini di competenze da parte degli studenti. Se si pensa che l’istruzione di oggi è lo sviluppo del domani e si considera il fenomeno della “fuga di cervelli” dei laureati verso terre con prospettive lavorative migliori, è facile supporre che il futuro potrebbe presto presentare scenari non confortanti.
Fanalino di coda della classifica Isu sono i Paesi dell’Africa subsahariana: Niger, Congo, Repubblica Centraficana e Ciad dove, nonostante la presenza di materie prime e spesso anche di fonti di energia fossile, a una situazione politica spesso instabile si aggiungono le assenze di servizi igienico-sanitari idonei e la carenza di strutture scolastiche in grado di formare le generazioni che presto dovranno prendere in mano le redini di tali Paesi. Alla scarsità di capitale si affianca l’ombra di malattie mortali come ebola e Aids, problemi che rendono i Paesi africani incapaci di sfruttare in maniera efficiente le suddette materie prime di cui pure dispongono; esattamente il contrario di ciò che sta riuscendo a fare la Norvegia, la cui economia è florida grazie anche allo sfruttamento delle riserve naturali di gas metano e di petrolio: prima esportatrice europea di greggio, nonché terza nel mondo, essa ha attorno al petrolio il 25% del suo Pil, per non parlare delle riserve minerarie di ferro, carbone, rame, zinco e titanio. La Norvegia brilla inoltre per la sua capacità di sfruttare energia idroelettrica con 105,6 miliardi di kWh all’anno. Ma non è tutto: il 22% del Pil norvegese è dato dal settore terziario e in particolare di mercati bancario, assicurativo e finanziario. Notevoli anche i risultati raggiunti per quanto riguarda l’istruzione: nel Paese, infatti, la scuola è obbligatoria sin dal 1736 e a oggi il 100% della popolazione oltre all’età infantile è scolarizzata. Il capitale umano creato da tale scolarizzazione viene ben investito dallo Stato, il quale, in piena crisi, si è trovato di fronte a valori di disoccupazione massimi del 4,1% lo scorso anno; valori certo allarmanti per un Paese in cui la disoccupazione media oscilla solitamente attorno al 2%, ma allo stesso tempo chimerici per Paesi come il nostro in cui da ormai diversi anni la disoccupazione si misura a due cifre. La strategia economica Norvegese si basa su quello che potremmo definire un “interventismo calcolato” dello Stato a supporto delle industrie, e forse questo è uno dei fattori fondamentali che spingono la Norvegia a non entrare nell’Unione Europea, nella quale i sussidi statali alle imprese sono vietati.
Probabilmente è proprio da questo dato che l’Unione dovrebbe prendere esempio: un buon grado di sviluppo non deriva semplicemente dal possesso di grandi quantità di materie prime, bensì dal loro utilizzo consapevole nel rispetto dell’ambiente e delle generazioni presenti e future. Forse il divieto di intervento degli Stati Membri a supporto delle loro imprese potrebbe nel tempo generare effetti perversi; al contrario, un intervento statale, purché cauto e pertinente, può essere fonte di benessere ed espansione democratica. Come osserva il giornalista Adriano Sofri “il petrolio coincide ovunque con la tirannide e l’oscurantismo (con poche eccezioni, ora il Ghana, forse). Siccome il petrolio finisce, i norvegesi ne hanno fatto una risorsa da accantonare largamente per le generazioni a venire, e hanno selezionato i loro partner economici in modo da escludere dittatori e violatori di diritti umani e corrotti”.

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Quattro giorni di eventi internazionali dedicati al cinema indipendente, alle opere prime, all’innovazione e ai corti a tematica ambientale.

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Fulvio Gandini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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