Una Russia che non c’è mai stata e un’Italia che non c’è più
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Costruito con materiali inediti e recuperati presso l’Home Movies – Archivio nazionale del film di famiglia [vedi], il film documentario “Il Treno va a Mosca” è stata la rivelazione del 31° Torino Film Festival, nel 2013. Sono i filmati 8mm del barbiere comunista Sauro Ravaglia, della romagnola e rossa Alfonsine, a condurci nel passato e nella storia di un paese che aveva energia, curiosità, intelligenza e voglia di vivere. Insieme ai filmati amatoriali di Sauro, vi sono anche quelli degli amici Enzo Pasi e Luigi Pattuelli, girati a partire dagli anni ’50 e anch’essi conservati da Home Movies.
Un’appassionata ricostruzione, uno sguardo unico su un’epoca, un viaggio nello spazio e nel tempo, un ripercorrere una memoria spesso ignota o ignorata. Siamo nel 1957, in un’Italia del dopoguerra che ha voglia di vivere e conoscere. Per il protagonista Sauro, come per molti “compagni” progressisti della sua generazione, è l’anno del Festival della gioventù socialista, unica e irripetibile occasione di visitare la lontana e sognata Mosca. Chi vi ci si reca in treno chi, si dice, pure in bicicletta. Sullo schermo scorrono registrazioni dell’epoca e immagini delle feste dell’Unità delle campagne romagnole, con sullo sfondo l’aria di “Mamma”, di Beniamino Gigli, quell’aria rielaborata da chi credeva nel sogno sovietico con un “Lenin, la tua dottrina si diffonde e vola / Lenin, la tua parola è quella che consola / Il dolce sogno santo / della gran città del sole / che ha vagheggiato ogni cuore / ti realizzasti quaggiù / Lenin, il più gran dono del mondo sei tu”. Lenin come la mamma …! E poi ancora immagini di ragazzi spensierati che, nel lungo viaggio in treno per Mosca, sono solo felici, i sovietici che accolgono i giovani stranieri con slancio e curiosità, tutti che sono amici.
Ma cosa succede se si è partiti per filmare l’utopia e ci si trova di fronte la realtà? Sauro non poteva rivelare la sua disillusione, maturata nel vedere piccole camere con persone ammassate che dormivano per terra (i kommunalki), bus pieni zeppi di lavoratori stipati come animali caricati ogni mattina per andare al lavoro, non poteva ammettere al mondo che in Unione sovietica non era poi tutto così bello e giusto, che vi era grande povertà. Il trauma fu al rientro, quando si disse che alcune cose era meglio non mostrarle. Nessuno era mai andato laggiù e le uniche fonti d’informazione erano l’Unità e le radio in lingua italiana, come Radio Praga. Il mito sovietico fu smantellato solo molti anni dopo, fino ad allora restava.
Per Sauro, come per i suoi amici, quel viaggio diventa, però, un momento di maturazione e di passaggio, di forte consapevolezza che si trasformerà, in seguito, in uno stimolo a continuare a viaggiare, per conoscere e capire il mondo. Cosa che Sauro continuerà a fare, solo con la sua cinepresa. Il film racconta la storia di un’utopia, dall’inizio alla fine, senza per questo rinnegarla, ma riconoscendola e comprendendo che quel mondo era finito, nel 1964, con la morte di Palmiro Togliatti, ai cui funerali Sauro stesso partecipa. Un ciclo importante ma che si chiude.
Una maturità che non rinnega nulla, che rimette in discussione un’utopia (la Russia che non c’è mai stata), in maniera intelligente e analitica, e che ci ricorda però, anche, come era bello quando una comunità era unita dalla solidarietà, da un sogno o da un’idea di futuro (un’Italia che non c’è più). Un sogno che oggi tanto ci manca. E che ci servirebbe.
“Il Treno va a Mosca“, di Federico Ferrone e Michele Manzolini, con Sauro Ravaglia, Italia-Gran Bretagna, 2013, 70 mn.
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Simonetta Sandri
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