“Qui a Ferrara ci hanno tolto l’ospedale, ce l’hanno messo ad un quarto d’ora di macchina!” è stata la prima lamentela che ho sentito dal mio primo amico ferrarese doc. Sorrisi intimamente quando l’ascoltai, ma non glielo dissi (l’ho fatto solo qualche anno dopo): anche da me, nel piccolo paesino di montagna da cui provengo, hanno tolto un ospedale, ma il tragitto è di una settantina di chilometri, su di una strada che fa più morti che altro… Vivo a Ferrara da quasi quattro anni oramai. Sto imparando a conoscerla, a capirla. E mi rendo conto che, prima o poi, i conti con Cona li si deve pur fare. Così vorrei raccontare i due mondi diversi che ho scoperto, le mie due visioni: Cona di giorno e di notte.
La prima volta all’ospedale, non si scorda mai. Ricordo di aver accompagnato la mia compagna, un motivo abbastanza serio. La prima cosa che notai arrivando da via Comacchio fu una grandissima insegna, una ditta, onoranze funebri, mi dissi “iniziamo bene”. Ho sempre dato fin troppa importanza a piccoli dettagli che per altri sembrano banali. Arrivai e vidi di fronte a me questo esteso colosso. Il bus ci fermò all’ingresso principale, noi necessitavamo del pronto soccorso, ma mi dissi che non sarebbe stato poi così distante. All’ingresso un’indicazione segnalava una porta scorrevole rotta, pensai che spesso anche giù da me si rompevano, forse a fornirle è la stessa ditta…
Una ragazza alla reception sorrise vedendoci arrivare, chiesi del Pronto soccorso, mi diede una spiegazione degna di un film, per poi porgermi una cartina. Dovevo avere l’aria piuttosto stupefatta dopo che spiegò che il tragitto migliore richiedeva di uscire dall’ospedale. Uscimmo. Dopo una buona camminata arrivammo a una porta, eravamo abbastanza spaesati e iniziava ad innervosirmi la situazione, soprattutto perché la mia compagna faticava a camminare. Una porta. Busso. Apre un gentile infermiere e la prima cosa che mi dice è “Cercate il pronto soccorso vero?”. L’aria era di quelli che ricevono queste ‘visite’ svariate volte al giorno. Gli dissi di si e mi diede delle altre indicazioni, che prevedevano il tornare indietro perché eravamo andati troppo avanti. Gli chiesi, per curiosità, dove eravamo finiti. La risposta mi fece riflettere: “Questa è la camera mortuaria”. Non potei non pensare a quel cartello iniziale, la giornata stava prendendo una bruttissima piega.
Finalmente arrivammo al pronto soccorso. Svariate visite, attesa normalmente lunga, uscita. Il problema si ripresentò però al ritorno: dovevamo prendere il bus, e il bus ferma davanti all’ingresso. Altro tragitto, altro nervosismo, altro inutile dolore. Questa volta percorso interno spiegatoci da un’infermiera. Fu chiarissima. Io meno ricettivo. Risultato: persi due volte la strada. Finalmente arrivammo alla fermata. Salito sul bus guardavo alle spalle quel posto e sorridevo: paese che vai, ospedale che trovi.
Passò del tempo prima che io tornassi lì, questa volta però in vesti diverse. Lavoravo come porta pizze e la pizzeria consegnava spesso lì. In quel momento ho davvero conosciuto il “labirinto Cona”. Una rapida spiegazione di un mio collega albanese fu illuminante sul “filo di Arianna” da seguire per destreggiarsi.
Cona di notte però cambia forma. Il buio che lo circonda dà a quel posto un’atmosfera simil gotica, quasi lovecraftiana. Dentro non c’è più il brulichio del mattino, ma uno strano silenzio. Soprattutto nessuno a cui chiedere informazioni. Quindi si deve andare a colpo sicuro. La prima volta mi persi, sono sincero, ma poi, dopo quasi un anno, diventai un esperto. Mi districavo tra vari reparti e codici del tipo 2C2, al punto addirittura da riuscire io stesso a dare indicazione a chi, spaesato, di notte, si aggirava nei corridoi dell’ospedale.
Dopo quattro anni, oramai, di Cona ho viste mille sfaccettature (purtroppo ci sono andato spesso), ma una cosa conservo con cura: la mappa datami il primo giorno: in camera mortuaria non ci vorrei finire più, almeno non con le mie gambe.
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Jonatas Di Sabato
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