All’apertura delle urne dopo le elezioni di domenica 25 maggio gli aggettivi si sprecano per definire i risultati. Comunque la sorpresa è grande.
In Italia si è votato per il rinnovo del Parlamento europeo, ma anche in due Regioni (Piemonte e Abruzzo), in 4.098 Comuni e 29 capoluoghi di provincia. Il dato europeo ha smentito ogni previsione e sondaggio. I motivi sono tanti e a urne ancora calde è possibile dirne solo alcuni.
Innanzitutto il dato dell’affluenza italica, con un calo di circa otto punti percentuali. Alle precedenti europee infatti votarono il 66,43 per cento, mentre ora il numero si ferma al 58,69.
Ma soprattutto ha spiazzato tutti il risultato del Pd, con il 40,81 per cento. Quasi il doppio rispetto allo spauracchio Grillo, fermatosi al 21,16, e ben più del doppio di Forza Italia che non è andata oltre il 16,8. Girano già le prime considerazioni sui flussi elettorali.
Il partito di Renzi guadagna 2,5 milioni di voti rispetto alle politiche del 2013 e in particolare ne sussumerebbe un milione da M5S, oltre un milione da Scelta civica (presentatosi come Scelta europea e ora praticamente scomparso con uno 0,71) e 430mila dal partito di Berlusconi.
Quest’ultimo riporta una secca sconfitta, perdendo per strada due milioni e 750mila voti rispetto l’anno scorso, dei quali 1,750mila sono attribuiti all’astensionismo di un elettorato che non ha creduto all’ennesimo miracolo dell’ex cavaliere, 470mila finiti all’Ncd di Alfano (fermatosi al 4,38 per cento) e, appunto, 430mila migrati verso Renzi.
Secondo diversi commentatori sarebbe la prima volta che si registra, almeno negli ultimi anni, una mobilità dell’elettorato di una certa consistenza da un fronte all’altro, rispetto ad assetti finora blindati e che, in momenti di incertezza, semmai trovavano parcheggio nell’astensione.
Rimane, più o meno, il solo direttore de Il giornale, Alessandro Sallusti, a scrivere del “miracolo di tenere in vita e in gioco il mondo dei liberali”. Il ragionamento, seguito da altri, è che se si sommano i voti di Fi, Ncd e Fratelli d’Italia (3,66), il numero è sostanzialmente identico all’ultimo PdL.
Ma così non si va all’origine delle varie divisioni e la spiegazione della corsa alle poltrone, da sola, non convince per dare ragione in profondità di un disegno che, se non si vuole arrivato al capolinea, dimostra la necessità di una decisa regolata.
Per contro il Pd di Renzi stravince, con risultati che non si vedevano dai tempi della Dc. Il paragone non è fuori luogo, visto che in molti fanno notare che è il partito del presidente del Consiglio che vince, il quale vede rafforzata la propria leadership interna e ha ora, sia pure in modo indiretto, quella legittimazione popolare che finora in molti gli hanno contestato per il modo col quale è approdato a palazzo Chigi.
E adesso? Bisognerà vedere se l’ex sindaco di Firenze vorrà passare a breve all’incasso di questo largo consenso, in buona parte personale, in chiave nazionale.
Intanto però se da un lato esce rafforzata la sua azione di governo, dall’altra ombre si infittiscono sul cosiddetto patto del Nazareno, siglato con Berlusconi per una nuova legge elettorale e la riforma della Costituzione. Accordo definito pensando che Pd e Forza Italia fossero i primi due della classe per far fuori Grillo e compagnia.
Adesso che lo spettro azzurro di retrocedere nettamente a terza forza della politica nazionale si è materializzato, tutto può tornare in altomare e a quel punto l’intera architettura istituzionale potrebbe non avere più i numeri. A meno che, nel frattempo, la secca battuta d’arresto di Grillo e Casaleggio non provochi uno smottamento nel movimento, già a partire dalle aule parlamentari.
Le frasi ripetute di chi ricorda che il comico genovese si sarebbe ritirato in caso di sconfitta potrebbero avere questo significato.
Alzando poi lo sguardo sul contesto continentale, mentre un killer semina morte al museo ebraico di Bruxelles, mentre in Polonia scompare a novant’anni il generale Jaruzelski, mentre in Ucraina perde la vita il reporter italiano Luca Santese e mentre papa Francesco in Terra Santa semina parole di pace e appoggia il capo pregando sul muro della vergogna che separa israeliani e palestinesi, le elezioni europee hanno visto rialzare la testa partiti euroscettici, populisti e xenofobi. Dal successo di Marine le Pen in Francia, alla Danimarca, fino all’ingresso in Parlamento di un esponente neonazista, eletto per la prima volta in Germania dopo l’abrogazione della soglia del 5 per cento che impediva l’accesso a Strasburgo dei partiti minori.
Il tutto mentre i dati darebbero un Parlamento europeo a trazione Ppe e con un’Eurozona sempre più stanca della sola linea dell’austerità, la quale produce alla fine questi risultati dalle urne.
E pensare che il Parlamento di Strasburgo uscito dal Trattato di Lisbona nel 2007 dà la possibilità, per la prima volta, di contare di più per la scelta del presidente della Commissione europea. Sarà sempre il Consiglio europeo ad indicarne il nome, ma adesso lo dovrà fare tenendo conto dei risultati elettorali e il candidato prescelto dovrà ottenere la fiducia del Parlamento.
È poco? È tanto? Di certo, almeno in Italia, se n’è parlato poco in una campagna elettorale all’insegna di una politica costantemente con l’amplificatore a tutto buco e intenta a misurare gli equilibri interni.
Il semestre di Presidenza italiana si avvicina e non sarebbe male mettere a frutto un risultato meno sghembo di altri contesti per guardare più lontano e contribuire a rimuovere le radici pericolose di un euroscetticismo diffuso, che per molti versi suona come un campanello d’allarme da analizzare e ascoltare molto attentamente.
Pepito Sbazzeguti
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Francesco Lavezzi
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