Senza calcoli astronomici, domani – anche se non ci sono più le mezze stagioni (cit.) – dovrebbe arrivare in tromba magna (cit.) proprio lei, la mezza stagione più attesa.
Non ho capito bene perché ma a me quest’anno è sembrata un po’ in anticipo.
Così, a pelle, l’ho sentita bussare tipo il 7 marzo, più o meno.
Sarò io che sono un ceffo ma quel giorno lì mi sono svegliato con l’impellente bisogno di rimettere su “Forever Changes” dei Love, un disco “primaverile” sì ma primaverile come una rondine.
Quindi se non ci sono più le mezze stagioni (cit) e una rondine non fa primavera (cit.) dovrei essere perfettamente in regola.
Così in regola che poi, proprio quel 7 marzo, mi sono ricordato che Arthur Lee, il lider maximo e cantante dei Love, ne avrebbe fatti 72.
Tombola.
Anche perché quest’anno “Forever Changes” ne fa 50, cifra tonda che è una scusa perfetta per attaccare una pezza su ‘sto disco assurdo.
Un disco che è – più o meno a detta di tutti – Il Capolavoro Assoluto dei Love e a detta di molti – così, fuori dai denti – è anche uno dei dischi più belli in assoluto della storia della musica pop o rock o come la vogliamo chiamare.
Stranamente, per una volta, non mi posso proprio lagnare perché sono d’accordo con entrambe le fazioni.
“Forever Changes” è una masegna bianca e leggerissima, una specie di masegna ripiena di fiorellini che manda un po’ in palla le nostre variegate, soggettive concezioni di “masegna.
E’ un caso abbastanza unico nella musica pop-rock-boh e per come la vedo io c’è un solo altro disco che gli somiglia almeno vagamente ed è, forse, il suo unico figlio: “Ocean Rain” degli Echo & The Bunnymen.
Ovvero un altro disco che se lo metti su non fa scancherare più o meno nessuno perché non ti taglia le vene per lungo come un “Berlin” di Lou Reed anche se sotto sotto fa abbastanza scago.
Ma “Forever Changes”, almeno a me, fa anche più paura.
Perché Arthur Lee, su quegli arrangiamenti per archi/fiati/ottoni ecc. e su quelle canzoni perfette, canta delle cose terribili.
Terribili e parecchio lungimiranti per un disco californiano del 1967.
Perché blah blah blah gli hippy e i fricchettoni e tutta quella roba che poi avrebbe portato a Charles Manson e a tanti altri piccoli Charles Manson qua e là ma Arthur Lee, forse, con questa sua candida masegna ripiena di fiorellini, aveva cercato di dire – in tempo reale – che in realtà, forse, tutti quei fiorellini addosso a tutti quegli hippy erano un modo per camuffare delle gran masegne.
Masegne che poi infatti sarebbero esplose appestando l’aria e le auree di tutti.
Triste, terribile ma alla fine ha avuto ragione, anche due volte.
Una perché l’ha detto subito e due perché l’ha detto con educazione, buttandocisi in prima persona e stando in mezzo a tutti quei personaggi ricoperti di fiorellini.
Un po’ come quella rondine che non fa primavera (cit.) e un po’ come ho accolto io questa primavera che inizia ufficialmente questa settimana.
Quindi, per tutti quelli che non hanno mai sentito i Love e/o “Forever Changes”, buona primavera, buon pezzo della settimana, buon compleanno in ritardo ad Arthur Lee e buoni 50 – con un po’ di anticipo – a questo disco spaventoso.
E allora va mo’ che carino ‘sto pipistrello che cinguetta travestito da rondine.
A House Is Not A Motel (“Forever Changes”, Love, 1967)
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