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di Diego Remaggi

Tra i casi di cronaca (direi internazionale) che mi hanno colpito di più in questo 2016 ormai agli sgoccioli, non posso non citare la brutta storia di Giulio Regeni. Per chi ancora non la conoscesse, è utile fare qualche passo indietro, tornando proprio agli inizi di gennaio di quest’anno. Giulio era un cittadino italiano e uno studente di dottorato presso l’Università di Cambridge nel Regno Unito. Stava conducendo una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto nel periodo successivo al 2011, quando finì il governo di Hosni Mubarak. Il 25 gennaio, quinto anniversario della Rivoluzione, Giulio scomparve. Il suo corpo fu ritrovato casualmente, con evidenti segni di tortura, il 3 febbraio in un fosso ai bordi dell’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria. Il giovane universitario era uscito per raggiungere i suoi amici e festeggiare il compleanno di uno di loro, ma non è mai arrivato a destinazione. Quando sua madre vide il corpo orrendamente torturato e il volto irriconoscibile, se non dalla punta del naso, disse che su di lui si era “abbattuto tutto il male del mondo”.

Per diversi giorni, dopo il ritrovamento del cadavere, la brutale uccisione di Giulio Regeni ha scioccato il mondo, ma ha anche acceso i riflettori sul metodo delle sparizioni forzate praticato in maniera sistematica in Egitto e che i ricercatori di Amnesty International hanno documentato attraverso i fatti e le testimonianze. Il quadro che ne esce fuori è disarmante: ogni giorno tre o quattro persone sono vittime di sparizioni forzate nel paese. Si tratta di una strategia assolutamente non casuale ma fortemente voluta dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale che è guidata dal Ministro degli Interni egiziano Magdy Abd el-Ghaffar.

Qui è possibile leggere il rapporto di Amnesty sulle persone scomparse in Egitto in nome della lotta al terrorismo:“https://d21zrvtkxtd6ae.cloudfront.net/public/uploads/2016/11/23112703/Egitto_ufficialmente_non_esisti.pdf”

Poche settimane dopo la morte di Giulio, uno striscione ha iniziato a fare il giro del mondo, un semplice drappo giallo con scritto “Verità per Giulio Regeni”. Lo scopo è stato, ed è ancora, quello di non permettere che l’omicidio del giovane ricercatore italiano vada dimenticato o, ancora peggio, sistematicamente ridotto ad un caso risolto con una “versione ufficiale” da parte del Governo egiziano. “Qualsiasi esito distante da una verità accertata e riconosciuta in modo indipendente, da raggiungere anche col prezioso contributo delle donne e degli uomini che in Egitto provano ancora a occuparsi di diritti umani, nonostante la forte repressione cui sono sottoposti, dev’essere respinto”, si legge sulle motivazioni della campagna di Amnesty International.

“Verità per Giulio Regeni” è diventata la richiesta di tanti Enti locali, dei principali Comuni italiani, delle Università e di altri luoghi di cultura del nostro Paese che hanno esposto questo striscione, o comunque un simbolo che chieda a tutti l’impegno per avere la verità sulla morte di Giulio. Migliaia di cittadini e cittadine, italiani e non, hanno continuato e continuano incessantemente a chiedere la verità. Nel testo della petizione internazionale per chiedere verità sull’omicidio di Regeni (che ha alcuni importanti sostenitori come Valerio Mastandrea e lo chef Rubio), si chiede chiaramente al Governo egiziano “di avviare un’indagine approfondita e indipendente sull’omicidio del cittadino italiano e studente dell’università di Cambridge Giulio Regeni, a seguito del suo rapimento e delle torture subite, e di assicurare i responsabili alla giustizia.”

Per sostenere Amnesty nella richiesta al Governo del Cairo è possibile firmare, “correndo” per Giulio e per altri quattro “eroi” dei nostri giorni: Edward Snowden, che ha condiviso con la stampa documenti dei servizi segreti degli Stati Uniti, rivelando come i nostri governi monitorassero i nostri dati personali, tra cui le nostre telefonate, la nostra posta elettronica e molto altro ancora; Maxima Acuna che ha subito violente persecuzioni e minacce della polizia locale per essersi rifiutata di abbandonare la terra dove vive con la sua famiglia; Bayram Mammadov e Giyas Ibrahimov che hanno osato criticare pubblicamente lo Stato scrivendo un messaggio di sfida sulla statua dell’ex presidente dell’Azerbaigian, il giorno prima delle celebrazioni per l’anniversario della sua nascita, e sono stati arrestati il giorno seguente, il 10 maggio 2016, con false accuse legate alla droga; Ilham Tohti, stimato professore universitario, che ha lavorato instancabilmente per costruire ponti tra le varie comunità etniche della Cina, si è sempre opposto alla violenza, cercando di incoraggiare la cooperazione e la comprensione, ma ora è imprigionato a vita, con l’accusa assurda di aver fomentato l’odio etnico.

Se anche voi volete giustizia, lasciate la vostra firma qui, ci vuole veramente un attimo: https://www.amnesty.it/maratone/5-appelli-per-chiedere-giustizia/

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Redazione di Periscopio



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