Un gioiello jazz americano
Sax tenore, batteria e piano nella Parigi degli anni ’80
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di Federico Benedetti
Quando ero giovane ero particolarmente stupido, e anche ignorante (spero di essere cambiato nel frattempo, oltre ad avere perso i capelli…). Correvo dietro alle mode, ero violentemente attuale, nel senso che amavo tutti quegli artisti neanche considerati dalla stampa musicale, che va poi sempre a braccetto col mercato, cioè raccomanda sempre ciò che si deve vendere, proporre il nuovo fenomeno che tutti devono conoscere e naturalmente, per quanto riguarda i giovani musicisti, imitare… Correvano gli anni Ottanta, e a Parigi, dove vivevo, eravamo tutti post-Coltraniani, cercavamo il virtuosismo di Michael Brecker e l’espressione di Dave Liebman, volevamo suonare forte e veloce, scale complicate, sostituzioni armoniche ardite, composizioni spesso astruse ma di certo MODERNE, assolutamente MODERNE!
Ebbi la fortuna di studiare, poi di collaborare con un grande jazzista che allora aveva una sessantina d’anni, e, con grande esperienza e pazienza, cercava di insegnarci il valore della tradizione, non per farne un museo, ma per appropriarci di quel linguaggio che era, di fatto, anche quello di Coltrane. Ci spiegava che Trane e gli altri l’avevano certo rinnovato e fatto evolvere, ma con i piedi ben piantati nel suolo, che poi si chiamano proprio radici. Si chiamava Roger Guérin, e sapeva di che parlava, avendo suonato con Django Reinhardt, Dizzy Gillespie, Duke Ellington, Quincy Jones… Fu lui che mi consigliò di ascoltare, tra gli altri, Lester Young. Che sia benedetto per l’eternità!…
Assiduo frequentatore delle discoteche pubbliche, dove si potevano prendere in prestito dischi e i primi CD, mi procurai quel gioiello che è proprio il Trio di Lester con Nat King Cole e Buddy Rich. Sapevo del primo che era stato l’influenza maggiore di Charlie Parker, ma lo relegavo per questo nel rispettoso museo della genealogia del jazz, niente di più. Per quanto riguarda Nat King Cole, conoscevo di lui solo il crooner impomatato con sottofondo di violini zuccherosi, non certo uno swingman dei più temibili (oggi, alla luce del grande pianista, apprezzo anche lo swing imbattibile del crooner). Mai mi sarei aspettato il florilegio di interplay, poliritmia e il feeling impetuoso in cui mi trovai immerso fin dal primo ascolto.
Il primo brano, Back in the Land, è un semplice blues in Fa, ma dietro tale apparente banalità (il rischio della routine è grande, in simili casi), tutto si gioca sul contrasto tra l’incalzare implacabile dei bassi di Nat (tutto uno spingere e tirare di formule in 12/8) e l’elegante indolenza di Pres (the President era il soprannome che sanciva la superiorità riconosciuta a Lester dall’unanime mondo musicale di New York). La voce di Lester è un lamento forte e sicuro (lamentarsi ma con forza e sicurezza: i nostri sindacalisti avrebbero tanto da imparare da lui…), che paradossalmente non ha nulla di lamentoso… L’assolo di Cole continua secondo le premesse: la mano destra e la sinistra conversano concitatamente, sembrano quasi bisticciarsi in una fantastica poliritmia, mentre Buddy Rich, sornione, tesse la sua solida tela con le spazzole, aspettando il suo momento.
I Cover the Waterfront è una soave ballad, cavallo di battaglia del Presidente. Il suono opaco e spesso del sax tenore distilla la melodia con drammaticità, concludendo ogni frase con un sottile vibrato la cui eleganza non ha eguali, salvo, naturalmente, in Billie Holiday, il cui stile era quasi simbiotico rispetto a quello di Lester (si ascoltino le session Verve dove sono insieme) – personalmente, ho sempre trovato che il vibrato è l’aspetto del suono più “pericoloso”, un pelo di troppo e si cade rovinosamente nel cattivo gusto; loro mai… Sempre in felice contrasto, anche qui Nat King Cole fa un assolo di un modernismo stupefacente, giocoso sincopato poliritmico e sempre al limite del double time: sembra di assistere in diretta alla nascita del bebop (si possono immaginare Bud Powell e ancor di più Thelonious Monk con le orecchie dritte, attenti ad ogni mossa del King…). Gli stessi aspetti si trovano nell’altra struggente ballad dell’album, The Man I Love.
In Somebody Loves Me il tessuto ritmico è analogo e ancora più esplicito: la mano sinistra di Nat, piena di sincopi e anticipazioni anche violente, è sostenuta dall’operosità sicura di Buddy Rich, sempre alle spazzole, quel “cookin’”, lavorio incessante e indispensabile, che è l’essenza stessa dei batteristi swing. Sull’ultimo chorus di Lester lo scambio si anima e Nat e Buddy si lanciano insieme in una fantasmagoria di break improvvisati in cui il batterista mostra il suo melodismo, e le pelli dei tamburi miracolosamente cominciano a CANTARE.
Ma il senso, quasi la filosofia della formazione si coglie in I’ve Found a New Baby, vecchia canzone mille volte suonata dai jazzmen dai tempi di New Orleans, brano in tonalità minore, spesso eseguito in modo indiavolato. Qui anche i diavoli fuggono impauriti davanti a tanta geniale irruenza: all’inizio, ex-abrupto, in uno scambio di quattro battute ognuno, senza accompagnamento, ognuno esegue con perizia ed entusiasmo il proprio festoso salto nel vuoto. Prima Lester, con un’involata di crome spigolose, con quel suo naturale tirare indietro sul tempo (lay back, si dice in gergo), poi si butta Buddy Rich a salvare il tutto con un lavoro di rullante tutto in sfumature, poi Cole in un ricamo di arpeggi, e di nuovo Lester, come un barrito irruento, Buddy, poi una discesa cromatica di piano lancia il tema. Quando Lester comincia il tema, dietro è ormai il delirio, tutto break, pedali, arresti e ripartenze. Lester è a nozze, anche lui scompone il fraseggio in mille segmenti sincopati. L’assolo di Nat continua nella stessa vena, ma il bello arriva con Buddy: break e accenti ovunque, tutto va in bellissimi frantumi, Cole non resiste e si associa all’assolo di batteria dialogando abbondantemente con lui, anche Lester, di solito così dinoccolato, si lancia, ed è tutto un gridare, un chiamarsi, un giocare a tutto spiano. L’ultimo tema è ormai ridotto a un insieme di riff, calls, effetti di suono, e il brano finisce con un festival di ritmi ed una mitragliata finale di crome di Lester e di Buddy Rich.
Si resta senza fiato, e in ogni caso lo restai quando, credendo di trovarmi davanti ad un jazz digestivo e senza sorprese, scoprii che quei mostri che quella musica l’avevano creata, non avevano nulla da invidiare in quanto a senso del rischio, dell’improvvisazione e dell’espressione al jazz cosiddetto contemporaneo.
Non parliamo poi di I Want to Be Happy, in cui Cole sembra aver rubato tutti i suoi accordi a Stravinsky e a Bartok, Rich suona con una libertà senza fine e Lester è imprevedibile nel finale, in cui i due compari lo acchiappano al volo proprio sul bordo del precipizio.
Si trattava insomma di instancabili sperimentatori, anche in quella formula di trio senza contrabbasso che fu poi così poco ripresa nella storia del jazz (e che in questo caso -mi perdonino i bassisti- non ci fa rimpiangere neanche un secondo che non ne abbiano preso uno…). Ma proprio l’assenza della figurazione fissa in quarti del basso offre ai tre la possibilità di scomporre forme e fraseggi a piacere, senza essere ancorati ai quattro bassi per battuta. Bisognerà aspettare Mingus e Scott Lafaro per avere contrabbassisti che giocheranno con ritmo e pulsazione liberando lo strumento dall’obbligo di “tenere il tempo”.
Da quel giorno cominciai ad ascoltare con grande interesse tutto il jazz, anche quello da cui molti decenni mi separavano, e capii definitivamente che la musica creativa non ha età, e che in ogni tempo la grande arte è sorpresa, rischio, avventura.
Lester Young Trio (1946)
tracce: “Back to the Land” (Young) – 3:52 – “I’ve Found a New Baby” (Palmer, Williams) – 4:04 – “I Cover the Waterfront” (Green, Heyman) – 4:03 – “Somebody Loves Me” (MacDonald, DeSylva, Gershwin) – 3:54 – “I Want to Be Happy” (Caesar, Youmans) – 3:56 – “The Man I Love” (Gershwin, Gershwin) – 4:48 – “Mean to Me” (Ahlert, Turk) – 4:09 – “Peg O’ My Heart”[5] (Bryan, Fisher) – 4:02
formazione:
Lester Young – sax tenore
Buddy Rich – batteria
Nat King Cole – piano

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Redazione di Periscopio
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