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Da qualche settimana sui giornali appaiono titoli che riguardano abbattimenti o rimozioni di statue di alcuni personaggi che hanno segnato la storia di molti paesi del mondo.
All’epoca di Gorbaciov, presidente dell’Unione Sovietica, che stava progettando di introdurre un inizio di democrazia nel suo Paese, avevo ammirato e condiviso la sua decisione di non rimuovere la statua di Lenin sulla piazza Rossa. In quel gesto, in quella scelta, si poteva leggere la consapevolezza del capo del Cremlino di che cosa fosse la democrazia e, soprattutto, del valore della Storia come fondamento di un progetto comune e reale di trasformazione costruttiva del procedere storico di una nazione e di un popolo.

Gorbaciov aveva capito che la democrazia non si esporta, ma si costruisce con il cammino faticoso e allo stesso tempo creativo e coinvolgente di chi vuole costruire un ambiente sociale di collaborazione e di intenti comuni, verso un obiettivo reale di convivenza nella giustizia. Chi abbatte le statue, come hanno fatto i componenti jihadisti con la statua gigante del Buddha, ha una concezione dell’umanità dipendente da volontà superiori e non in grado di crearsi la propria vita lasciando tracce.

Come dice il Presidente francese Macron, la storia non si cancella, per il semplice motivo che ciascuno di noi è figlio di quella storia e le attuali società sono il frutto di scelte precedenti e di vite precedenti, in poche parole come dice la mistica, scrittrice e promotrice culturale Angela Volpini: la storia è un progetto di comunicazione tra le generazioni (vedi: “L’uomo creatore” ed. Castelvecchi, 2016). Conoscere la propria storia da parte di un popolo è segno di maturità e di civiltà perché significa aver capito che ogni atto che, facciamo sia singolarmente che come società, ha delle conseguenze su tutti noi nel bene e nel male, poiché gli uomini sono liberi e perciò possono decidere della loro vita e del loro futuro.

La libertà, caratteristica specifica degli esseri umani, qualifica la singolarità di ciascuno e per questo possiamo conoscerci e definire la nostra identità. Questa identità segnerà di noi ogni nostra azione, perciò è tanto più libera quanto più è consapevole, quanto più è una scelta per la volontà di costruire il proprio posto nel mondo.
Niente e nessuno può decidere di noi, se non lo vogliamo; perciò chi distrugge i simboli del passato, anche se raccontano momenti non condivisibili o addirittura esecrabili, dimostra soltanto di non considerarsi un cittadino libero in quanto in grado di distinguere ciò che a lui corrisponde, ma si considera parte di una massa che avanza soltanto per l’inerzia del proprio peso e, in quanto tale, può essere orientata nella direzione decisa o dal caso o da qualcuno a cui conviene una adesione emozionale e acritica.

Questi gesti così clamorosi e violenti rappresentano in modo inequivocabile la violenza meno appariscente, ma altrettanto distruttiva, di coloro che voglio cancellare i progressi storici che hanno costituito il processo di democratizzazione delle nostre società.
Perché non ci si interroga e non si riflette sulla gravità della proposta di coloro che predicano il ritorno alle autonomie regionali rispetto alle organizzazioni statali? Di coloro che vogliono ricostituire il Lombardo-Veneto in Italia, la Catalogna in Spagna, la Vallonia in Belgio, e così via? O alla sovranità nazionale rispetto alla costruzione europea? Questi vogliono cancellare anni, se non secoli, di faticose conquiste di uomini e donne che hanno sacrificato la loro vita per realizzare i loro sogni e lasciare un’eredità preziosa ai loro figli.

Questi progetti di destrutturazione storica sono peggiori del revisionismo o del negazionismo perché    agiscono sulla realtà, rendendo tutti profughi, estranei al loro contesto, catapultandoli in una realtà ormai passata, rendendoli di fatto incapaci di vera autonomia e di vedere il futuro.
Ormai dovremmo aver capito che non è distruggendo ciò che non ci piace, ma è costruendo che si trasforma la realtà e si realizza una nuova storia che ci soddisfi pienamente.
Dovremmo aver capito non solo che la violenza non trasforma niente, ma che l’umanità ha bisogno di creare relazioni sempre più finalizzate a rendere la terra un ambiente aperto per tutti, la vera costruzione non chiude i confini, ma li supera. La memoria è parte sostanziale dell’essere umano, non è il ritorno al passato; avere memoria significa capire la profondità della propria realtà, la complessità della propria natura e riconoscere e possedere gli strumenti necessari a trasformare i sogni in desideri, i desideri in aspirazioni e le aspirazioni in possibilità concrete in un mondo finalmente accogliente per tutti.

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Grazia Baroni

Grazia Baroni, è nata a Torino nel 1951. Dopo il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento si è laureata in architettura e ha insegnato disegno e storia dell’arte nella scuola superiore durante la sua trentennale carriera. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio (CELIT). E’ socia e collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana. Dal 2016, anno della sua fondazione, fa parte del gruppo Molecole, un momento di ricerca e di lavoro sul bene, per creare e conoscere, scoprendo e dialogando con altre molecole positive e provare a porsi come elementi catalizzatori del cambiamento. Fra i temi affrontati dal gruppo c’è lo studio e dibattito sulla Burocrazia, studio e invio di un questionario allargato sulla felicità, sul suo significato e visione, lavori progettuali sulla felicità, in corso.


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