Tempo di relax, ce ne serve un po’, anzi direi molto di questi tempi bui e cupi. Se, allora, volete staccare da tutto e avete voglia di una commedia distensiva, a tratti esilarante e comunque assolutamente terapeutica, nel vero senso della parola, questa settimana vi consigliamo Un divano a Tunisi, un divano davvero strano quello del film della regista francese di origine tunisina Manele Labidi Labbé, cui è andato il premio del pubblico delle Giornate degli Autori del Festival di Venezia 2019.
Ispirata alla commedia all’italiana, la pellicola inizia e termina con due bellissime canzoni di Mina, rispettivamente “Città vuota” (1963) e “Io sono quel che sono” (1964). Accompagnati da queste note, ci troviamo di fronte alla scapigliata e radiosa Selma Derwich (interpretata dall’attrice franco-iraniana Golshifteh Farahani), psicanalista trentacinquenne, che lascia Parigi per aprire uno studio nella periferia di Tunisi, dov’è cresciuta. Una giovane in bilico fra due culture e un rientro in un paese cambiato, dopo la Primavere araba, dove i personaggi del film iniziano a fare i conti con una nuova libertà e l’apertura a usi e costumi occidentali decisamente avanti per un Paese confuso, ancorato alle usanze del passato.
La famiglia fatica a comprendere le motivazioni di una scelta tanto strana: perché mai tornare in quella complessa realtà, da una città scintillante come Parigi (dove però c’è troppa concorrenza) e con un progetto tanto strampalato, e a loro avviso irrealizzabile, oltre che inutile? Selma, che da Parigi porta con sé un divano e un ritratto di Sigmund Freud abbellito da un fez rosso, è un’inguaribile ottimista sulla sua missione, quella di sdraiare sul lettino i suoi connazionali e di rimetterli al mondo all’indomani della rivoluzione; ma deve scontrarsi con la diffidenza locale, l’amministrazione indolente e un poliziotto invadente che la boicotta.
A Tunisi, dove la gente si confessa nelle vasche dell’hammam o sotto il casco del parrucchiere, l’indipendente, libera e tatuata Selma offre una terza via, un luogo protetto, la sua casa dal terrazzo che guarda il cielo, per prendersi cura di sé e prendere il polso della città in mutazione e un po’ schizofrenica. Ad ogni seduta sfila un personaggio a dir poco stravagante, una galleria esilarante: un imam depresso che ha perso la “fede” e la moglie, un panettiere che ama vestirsi da donna, Baya, un’esuberante proprietaria di un salone di bellezza (Fériel Chamar) che ha un rapporto difficile con la madre, un paranoico che sogna di baciare presidenti e dittatori, un’adolescente ribelle, la cugina Olfa (Aïsha Ben Miled), pronta a tutto pur di lasciare la Tunisia (anche a sposare un gay pur di avere un passaporto), un poliziotto, Naim (Majd Mastoura), reazionario (ma affascinante).
Momenti comici ma anche malinconici, molti interrogativi esistenziali. In una società silenziosa che fatica a parlare e aprirsi, Selma ascolta passare sul divano i malesseri di un mondo combattuto tra tradizioni religiose e bisogno di parlare per ricostruirsi. Da vedere.
Un divano a Tunisi, di Manele Labidi, con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura, Hichem Yacoubi, Moncef Ajengui, Ramla Ayari, Amen Arbi, Feryel Chammari, Francia, 2019, 88 min
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Simonetta Sandri
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