Quando mai scuola e felicità hanno fatto rima. Anzi la nostra tradizione è quella della scuola della fatica e del sudore sui libri! Cosa succederebbe, allora, se la ricerca della felicità e il benessere delle persone entrassero nei programmi scolastici, fino ad orientare la scelta dei contenuti da apprendere sui banchi di scuola?
Non si tratta della fantasia di un sognatore, di un inguaribile utopista dell’educazione. Almeno da quando, nel 2000, il potente gruppo editoriale Springer lanciò il Journal of Happiness Studies, evidenziando un crescente interesse per le ricerche relative alla felicità e la vasta letteratura accumulata intorno a questo argomento.
È sufficiente navigare in internet per scoprire l’esistenza del “Worlddatabase” della felicità (http://www1.eur.nl/fsw/happiness/), registro costantemente aggiornato sulla ricerca scientifica relativa alla soddisfazione personale per la propria esistenza.
Padre e organizzatore ne è Ruut Veenhoven professore dell’Erasmus University, pioniere e autorità mondiale della ricerca scientifica sulla felicità.
Sostiene che la rilevanza della felicità come obiettivo sociale è crescente, che fame e epidemie saranno sconfitte con maggiore successo, se a muoverci sarà l’obiettivo di perseguire la felicità. Una dimostrazione di tutto ciò sarebbe il fatto che oggi le persone attribuiscono sempre maggiore rilevanza alla “qualità della vita”, piuttosto che alla quantità degli anni da vivere e delle cure sanitarie.
La salvaguardia della vita umana e il perseguimento della felicità, in opposizione ad una crescita economica a scapito dell’ambiente e della salute delle persone, possono guidare la scelta dei contenuti dei curricoli scolastici di scienze, storia, educazione civica, matematica, educazione alla salute, educazione ambientale, fino all’educazione fisica di un sistema formativo rifondato nell’organizzazione, nei curricula e nei metodi di insegnamento.
Questo nuovo modello di istruzione dovrebbe sostituire quello dominante, ormai globalizzato, creato dagli stati-nazione a partire dal diciannovesimo secolo, ancora focalizzato intorno alla crescita economica, allo sviluppo militare, alla formazione del cittadino. Dove più del 90% dei fanciulli del mondo, circa il 20% della popolazione mondiale, è quotidianamente irreggimentato, per una estensione di tempo che varia, a seconda dei sistemi scolastici nazionali, in classi aggregate per età, dall’istruzione primaria a quella secondaria.
Ormai da diverso tempo l’assunzione della crescita economica come misura del progresso umano viene contestata, ci sono economisti e sociologi i quali ritengono che la felicità umana o, come alcuni ricercatori dicono, il benessere della persona, dovrebbe essere il fine delle politiche sociali. L’economista britannico Richard Layard, direttore del Centre for Economic Performance alla London School of Economics, consigliere di Tony Blair, nominato Lord dalla regina, nel suo libro Felicità. La nuova scienza del benessere comune (Rizzoli, 2005) sostiene che esiste un paradosso al centro della nostra vita: desideriamo tutti più soldi, ma le società più ricche non diventano per questo più felici. Sulla scia della tradizione degli economisti “umanisti” come Keynes e Amartya Sen, Richard Layard pone le basi di una vera “scienza della felicità”, fondata sui saperi combinati della psicologia, della sociologia, dell’economia applicata e della politica. Layard propone il perseguimento della felicità come base della convivenza sociale e come scopo delle politiche pubbliche.
Egli osserva: «La società moderna necessita disperatamente di concepire un bene comune intorno al quale unire gli sforzi dei suoi membri. La Felicità è l’idea giusta».
D’altra parte la pedagogista statunitense Nel Noddings, nel suo libro pionieristico pubblicato in Italia da Erikson, Educazione e felicità, sostiene che la felicità dovrebbe essere l’obiettivo primario e dichiarato di ogni progetto educativo. Oggi, di fronte alle conquiste del pensiero sociale e della tecnologia, è più che mai importante considerare perché non promuoviamo certi obiettivi nell’istruzione e perché continuiamo a trascurare l’educazione al progetto di vita personale e alla felicità nel lavoro.
Educare a salvaguardare la vita umana propria e altrui, a massimizzare il benessere di ogni essere umano, alla cultura della difesa dell’ambiente e del diritto di ciascuno a vivere per esser felice anziché ricco, sono obiettivi davvero culturalmente molto distanti da quelli tradizionali a cui siamo abituati dai nostri sistemi scolastici che, in premessa ai loro programmi nazionali, spendono pagine e pagine sulla formazione della persona e del cittadino, ignorando poi totalmente la sua felicità e il suo benessere.
Certamente, qualcuno potrebbe argomentare che uno stato deve educare i suoi cittadini al lavoro e al rispetto delle tradizioni, perché questo garantisce la crescita economica e l’ordinata convivenza di tutti. Sappiamo ormai benissimo che non è così. Non è stato così nel passato, quando culture apprese a scuola hanno alimentato nazionalismi estremi, sono state fonte di guerre e di pericoli per la sopravvivenza della specie umana mai conosciuti prima.
Non è così per il lavoro. Mai come oggi, di fronte all’estensione assunta dalla disoccupazione giovanile, abbiamo assistito a una tale disfunzione tra scuola e mercato del lavoro. Inoltre, le pianificazioni che hanno combinato istruzione e obiettivi economici si sono forse dimostrate funzionali alla crescita economica ma non certo alla crescita del benessere dell’umanità.
Forse è davvero tempo di cambiare passo. Forse è tempo che la nostra scuola nell’esercizio della sua autonomia, a proposito di felicità, applichi l’espressione: «Penso globalmente, ma agisco localmente».
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Giovanni Fioravanti
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