“Il labirinto del silenzio”, “Il figlio di Saul” e “The Eichmann Show-Il processo del secolo”. Tre pellicole cinematografiche, un solo evento: la Shoah, la sua memoria, la sua narrazione.
Adolf Eichmann seduto nella sua gabbia di vetro; il discorso del procuratore israeliano Gideon Hausner, che si dice portavoce di “sei milioni di accusatori”; le testimonianze delle vittime, udite allora per la prima volta. Tutti abbiamo visto almeno una volta qualche immagine del processo che nel 1961 ha portato alla sbarra ‘la banalità del male’. Ora “The Eichmann Show”, prodotto dalla Bbc, rivolge lo sguardo del pubblico dietro le telecamere che per la prima volta hanno portato per quasi due mesi dentro le case in 37 paesi nel mondo la progettazione e l’esecuzione dello sterminio di massa. Artefice di questa operazione, allora tutt’altro che scontata, è il produttore televisivo Milton Fruchtman, che riesce non senza fatica a convincere le autorità israeliane e i giudici della necessità di riprendere le varie fasi del dibattimento. Insieme a lui il regista ebreo Leo Hurwitz, che negli Usa non riesce a lavorare perché iscritto nella lista nera della commissione McCarthy. “The Eichmann Show” mette in luce i due aspetti principali di quell’evento: è la prima occasione per gli israeliani e per il mondo intero di assistere alle sconvolgenti testimonianze dei sopravvissuti ai campi e alla resistenza in Europa; dall’altra parte c’è l’osservazione del ‘mostro’ Eichmann per opera delle videocamere nascoste in cabine di legno e preposte a videoriprendere il processo. Hurwitz tenta di (rac)cogliere le eventuali reazioni di Eichmann di fronte alle testimonianze proprio per togliergli la comoda etichetta di ‘mostro’ che consente alla collettività di rimuovere da sé qualsiasi ipotesi di malvagità.
Anche “Il labirinto del silenzio” è ambientato negli anni Sessanta, ma si passa dalla parte dei carnefici, o meglio i figli dei carnefici fanno i conti con le colpe o quantomeno i colpevoli silenzi dei propri padri. Il primo film di Giulio Ricciarelli – padre italiano, madre tedesca – candidato dalla Germania all’Oscar, narra la vicenda del processo istruito da un pubblico ministero e tre procuratori di Francoforte che nel 1963 disseppellirà Auschwitz dalla coscienza collettiva della società tedesca attraverso 22 imputati e 400 testimoni. Nel 1958 Johann Radmann è un giovane e idealista procuratore che viene avvicinato da Thomas Gnielka, giornalista anarchico e combattivo. Conosce Simon, artista ebreo sopravvissuto ad Auschwitz e a due figlie gemelle sottoposte ai test del dottor Mengele: Simon ha riconosciuto in un insegnante di una scuola elementare uno degli aguzzini del campo di concentramento. Johann decide di occuparsi del caso e chiede consiglio e aiuto a Fritz Bauer, procuratore generale, ebreo costretto a fuggire in Danimarca durante le persecuzioni. Le loro indagini si scontrano con una rete di silenzi e connivenze: un labirinto inestricabile in cui tutti sembrano coinvolti. Il film suscita così interrogativi sui controversi temi della responsabilità collettiva, della scelta e del dovere di guardarsi indietro.
“Il figlio di Saul” dell’ungherese László Nemes, invece, si immerge nell’abisso più profondo della macchina dello sterminio: i sonderkommando, i prigionieri costretti a collaborare al processo di sterminio nell’estremo girone delle camere a gas e dei crematori, che noi italiani abbiamo conosciuto con il volume “Sonderkommando Auscwitz” di Shlomo Venezia. È la disperata storia dell’ebreo ungherese Saul Auslander, deportato ad Auschwitz-Birkenau, reclutato come sonderkommando. Il suo gruppo si prepara alla rivolta prima che una nuova lista di sonderkommando venga stilata condannandoli a morte. Perduto ai suoi pensieri e ai compagni che lo circondano, Saul riconosce, o crede di riconoscere, nel cadavere di un ragazzino suo figlio: la sua missione ora è quella di dare una degna sepoltura al suo ragazzo, alla ricerca della pace e di un rabbino che reciti per lui il kaddish (preghiera per i defunti, ndr). Fra gli orrori e i rumori del campo, attraverso lunghi piani sequenza, per tutto il film il pubblico vede solo ciò che vede Saul. Tutto è giocato sul volto del protagonista, l’attore Geza Rohrig, ebreo ortodosso, poeta e insegnante ungherese, che ha perso parte della propria famiglia nella Shoah. Quando trent’anni fa è stato per la prima volta ad Auschwitz, ha deciso di fermarsi per un mese nella vicina Oswiecim, da dove ogni giorno tornava al campo per sedere e meditare in silenzio. Poi si è trasferito in Israele e si è iscritto a una yeshiva (istituzione educativa ebraica che si centra sullo studio dei testi religiosi tradizionali, ndr).
“Il figlio di Saul” ha vinto il Grand Prix speciale della giuria a Cannes e il Golden Globe, nonché una nomination all’Oscar, ma soprattutto ha conquistato Claude Lanzmann, l’autore del monumentale documentario “Shoah”: “è l’anti “Schindler’s list” – ha dichiarato il regista francese – Non mostra la morte, ma la vita di quanti sono stati obbligati a condurre i loro cari alla morte”.
“Il figlio di Saul” è in programmazione questa sera (in italiano) e domani (in versione originale con sottotitoli in italiano) alle 21.00 al Cinema Boldini in via Previati.
“The Eichmann Show-Il processo del secolo” è in programmazione fino a domani alle 20.30 all’Uci Cinemas di via Darsena.
Purtroppo non ho trovato sale cinematografiche in provincia di Ferrara che attualmente ospitino proiezioni de “Il labirinto del silenzio” .
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Federica Pezzoli
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