LECTIO MAGISTRALIS
Tre allieve speciali per una scuola Normale
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Hai mai immaginato di fare un bel discorsino al tuo professore, al tuo capo, al tuo Rettore, per toglierti qualche sassolino dalla scarpa, e di farlo nel momento più ecumenico, quello in cui vieni insignito di un diploma, gratificato da un trenta e lode o premiato con una promozione? Quel momento in cui la gioia per il premio, coronamento di tanti sforzi, svolge una funzione pacificatrice, e ti senti appagato al punto da tornare in pace con il mondo? Hai mai immaginato di perturbare il clima paludato della tua premiazione con un discorso che fa volare toghe e stole come una tromba d’aria nel cielo terso?
Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Valeria Grossi lo hanno fatto. il 23 luglio scorso, durante la cerimonia di consegna dei diplomi di laurea alla Normale di Pisa. Lo hanno fatto da studentesse “eccellenti”, che è il solo modo per essere credibili quando scompigli le parrucche, perché se lo fai da “normale” alla Normale passi per quello/a che protesta perchè non ha voglia di studiare.
Hanno premeditato tutto, con livida determinazione. Hanno iniziato il loro discorso dichiarando “profonda gratitudine verso ogni componente della Scuola: … al corpo docente, ma anche, per la presenza costante e l’aiuto concreto, al personale tecnico amministrativo, alle addette e agli addetti alle aule, alla portineria, al personale dei collegi, alle lavoratrici e ai lavoratori di mensa e biblioteca.”
Poi hanno iniziato a far vorticare l’aria. Hanno attaccato il sistema universitario ‘neo-liberale’, inteso come “un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi. Un’università in cui lo sfruttamento della forza-lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente; in cui le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli, aumentando i divari sociali e territoriali.”.
Queste parole già contengono alcune lancinanti verità sul mondo accademico e del lavoro italiano: la ricerca viene finanziata solo se porterà profitti (il contrario della logica della ricerca, che include in sè l’idea di nicchia e la possibilità del fallimento); conta quanto pubblichi (o quanto produci, o quanto vendi, o quanto arresti), non come lo fai; puoi vivere una vita di lavoro, dentro o fuori da un ateneo, senza avere mai la certezza della stabilità del tuo impiego; i “capaci e meritevoli” non sono affatto facilitati, ma possono arrivare in fondo non grazie all’Università italiana nel suo complesso, ma malgrado essa. Pensa alla forza eversiva di queste parole pronunciate da tre laureate eccellenti in una delle università di eccellenza.
Perché la Normale di Pisa non è un ateneo normale: è uno dei pochissimi atenei italiani nel quale i docenti e i ricercatori sono aumentati, mentre attorno “le iscrizioni alle università sono scese del 9,6%, e nel 2020 la popolazione tra i 25 e i 34 anni con istruzione terziaria in Italia si aggirava intorno al 29%, contro il 41% della media europea. … dal 2007 al 2018 le borse di dottorato bandite dalle università italiane sono diminuite del 43% (56% al sud); tra il 2008 e il 2020 nelle università statali i ricercatori sono diminuiti del 14%, e le recenti e parziali stabilizzazioni non sono che una goccia nell’oceano, dato che ben il 91% degli assegnisti di ricerca si vedrà escluso dall’università italiana; il personale a tempo determinato è ormai ben maggiore del personale a tempo indeterminato (e inoltre nel personale precario le donne sono sovrarappresentate).”
A questo punto Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Valeria Grossi sganciano la bomba.
“In questo contesto, noi, i cosiddetti “eccellenti”, siamo certamente quelli fortunati. Ma quale eccellenza tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell’eccellenza se, fuori da questa cattedrale nel deserto, ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto? Noi crediamo che di fronte a tutto questo la Scuola non sia senza colpe. Ha infatti promosso quella retorica dell’eccellenza e della meritocrazia, che legittima il taglio delle risorse. Ha incoraggiato la creazione di piccoli poli “di eccellenza” iper-finanziati, lasciando invece in secondo piano i rapporti con l’ateneo che più ci sta vicino e con cui più sarebbe opportuno collaborare, l’Università di Pisa.”.
Non so se è chiaro. Non lo è abbastanza? Allora leggi bene il passo che segue: “La nostra selezione in base al merito e l’intreccio tra didattica e ricerca sono due tra i principi basilari del “modello-Normale”. Nei fatti, tuttavia, troppo spesso questi principi si traducono nella retorica del merito e del talento come alibi per generare una competizione malsana e per deresponsabilizzare il corpo docente: per il semplice fatto di aver superato una selezione, dovremmo essere in grado di navigare da soli attraverso il complesso sistema accademico. C’è un modo di dire molto popolare in queste aule e cioè che alla Normale si viene buttati subito in acqua, ed è così che, pur di non affogare, si impara a nuotare in fretta. E tuttavia oggi a diplomarsi con noi non ci sono tutte le persone con cui abbiamo condiviso il nostro percorso: la loro assenza ci pesa ed è una sconfitta per la Scuola. Anche tra i presenti una buona parte ha imparato a nuotare solo a prezzo di anni di malessere. Vorremmo dirlo con chiarezza: non è grazie a, ma nonostante questo principio che siamo arrivati qui. Il risultato è stato quello di convivere cinque anni con la sindrome dell’impostore, senza sentirci mai all’altezza del posto che avevamo vinto. C’è chi ha adottato una performatività esasperata per compensare il proprio senso di inadeguatezza, sfruttando con spirito esibizionistico i seminari e gli interventi a lezione. C’è chi, invece, ha evitato di porre domande e chiedere spiegazioni per paura del giudizio altrui. Questa pressione sociale non è solo causa di un generico malessere; è piuttosto una stortura sistemica grave, che può avere conseguenze estreme sulla salute fisica e psicologica.”.
Queste parole sono un atto di denuncia pesantissimo. Fuori dalla scuola degli eccellenti, lo Stato abbandona al proprio destino gli studenti, ma anche i professori, tagliando progressivamente i fondi. Ma anche dentro la Normale (alla quale si accede con un rigido esame di ammissione) la maggior parte si perdono per strada. Costoro che non ce la fanno, sono davvero i non meritevoli, o sono invece i meno adatti, quelli che non si adeguano al meccanismo della competizione, della performance, del mettersi in mostra per adulare o “fregare” i docenti e diventare, opportunisticamente, i loro cocchi? E’ questo il meccanismo di crescita dei “migliori” ? E quanto queste parole ti ricordano quello che accade nel tuo ufficio, nella tua aula, nel tuo studio? A me lo ricordano tanto.
Le tre allieve riservano poi parole durissime alla disparità di trattamento nell’accesso e nella successiva carriera tra uomini e donne, considerando come un’aggravante il fatto che ciò accada anche alla Normale : “vi invitiamo anche a prestare attenzione sempre, durante le lezioni, nei corridoi, a ricevimento, quando di fronte a voi avete una donna: vi chiediamo di pensare due volte quando una ricercatrice è incinta, quando una professoressa è madre, o quando un’allieva rimane ferita davanti a un commento che a voi è parso innocente: si tratta magari di una reazione a un cliché da anni ripetuto, introiettato e ritenuto innocuo, ma che tale non è. Perché se è vero che in questa stanza siamo privilegiati, allora dovremmo essere noi per primi a sfruttare questo privilegio per informarci, per formarci, per sensibilizzarci e soprattutto per cambiare le cose.”.
E quanto sono vere e anticonvenzionali le parole con le quali concludono il loro intervento: “E’ significativo che nessuno di noi si riconosca nella retorica dell’eccellenza su cui la Scuola poggia. E questo non solo perché la consideriamo parte integrante di un modello insostenibile, ma anche e soprattutto perché la troviamo incompatibile con l’incompletezza e la fallibilità di ognuno di noi.”
Ho già parlato su queste pagine del mito della meritocrazia: [qui]
Non esito a definire formidabili le considerazioni di queste allieve: formidabili per il contenuto e per il contesto nel quale sono state pronunciate.
Sono parole al tempo stesso amare e dolci, disperate e fiduciose.
Sono imbevute di amarezza e disperazione per lo stato in cui versa il mondo accademico (e non), ma sono irradiate della speranza che esistono ancora giovani così lucidamente capaci di testimoniare i problemi, e così combattive da avere il coraggio di esporli direttamente dentro la fossa dei leoni, o dei Baroni.
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Nicola Cavallini
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