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Si dice spesso che un classico, in letteratura come in altri compi dell’arte, è veramente tale solo se mantiene un’attualità al di là del passare del tempo, solo se è in grado di continuare a dialogare con le generazioni che si susseguono, trasmettendo lo stesso messaggio a tutti oppure permettendo a ciascuno di trovare sempre un diverso punto in comune con la storia e i personaggi narrati. Ecco perché uno degli incontri della cinque giornate “Giorgio Bassani 1916-2016” è stato dedicato a “Bassani ieri, oggi, domani”.

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Organizzata da Portia Prebys per il Centro Studi Bassaniani e coordinata dal professor Gianni Venturi, la tavola rotonda è tornata su una querelle letteraria che a suo tempo suscitò diverse polemiche e che oppose il Gruppo ’63 a Giorgio Bassani, definito una “Liala degli anni Sessanta”, insieme a lui altri ‘mostri sacri’ come Cassola e Pratolini. Perché celebrare un autore significa anche dare spazio a chi lo critica, per mantenere vivo il dibattito sulle sue opere e far sì che continuino a essere lette.
La polemica letteraria Neoavanguardia contro Bassani potrebbe sembrare materia da salotti letterari, se non fosse che alcuni membri del Gruppo 63 diventeranno fra i maggiori protagonisti della cultura del Novecento: Alberto Arbasino, Luciano Anceschi, Achille Bonito Oliva, Edoardo Sanguineti, Luigi Malerba, Umberto Eco, sono solo alcuni nomi.
Insieme a Venturi, venerdì sera nella Sala dei Comuni del Castello Estense c’erano Giulio Ferroni, critico letterario e storico della letteratura italiano, Alberto Bertoni, docente bolognese di letteratura italiana contemporanea, Roberto Pazzi, unico scrittore al tavolo dei relatori, ma soprattutto due esponenti di quel Gruppo ’63 che fece così scalpore: Fausto Curi e Renato Barilli, due pilastri dell’Alma Mater Studiorum.

Quella definizione sprezzante, “Liala degli anni Sessanta”, spiacque non poco a Bassani che replicò prontamente e per le rime: “I più presi di mira siamo noi, gli scrittori della generazione di mezzo, noi che siamo usciti dalla Resistenza conservandone la tensione morale e l’impegno politico. Quelli che ci attaccano sono le anime belle della letteratura (…) Che si possa incontrarli qui a Roma nei caffè di piazza del Popolo, o in qualche ristorantuccio di via della Croce o di piazza Sforza Cesarini, tutti aggiornati anche fisicamente, nel taglio dei capelli e delle barbe, nelle giacche e nelle brache di velluto, nei camiciotti a quadrettoni, tutti così “artisti, così “irresponsabili”, così innocuamente “arrabbiati” o gelidi, comunque sempre chic, non aiuta davvero a chiarire l’enigma sulla loro reale identità (…) Il mio parere è che dei letterati della neoavanguardia si potrà cominciare a occuparsi soltanto quando avranno prodotto qualcosa di oggettivamente accettabile”.
Quando si dice che può ferire più la penna che la spada…

A cinquant’anni di distanza Curi e Barilli non sembrano retrocedere dalle loro posizioni. C’è però un elemento nuovo: “Quella frase su Liala noi non l’abbiamo mai pronunciata. Ciò che ci era proprio era l’accusa, non l’offesa”, afferma Renato Barilli, che subito dopo puntualizza: “quello che abbiamo fatto è bocciare questi autori, non abbiamo dato loro la sufficienza”. In fondo, ironizza lo storico della letteratura e dell’arte, “eravamo professorini” o meglio, come diceva lo stesso Umberto Eco, “un’avanguardia da vagone letto”.
“Non eravamo nati sotto un cavolo, avevamo dei padri, anzi di alcuni eravamo molto orgogliosi e non abbiamo nascosto queste paternità”, ha detto Curi, prima fra tutte quella di Anceschi, che nel 1956 aveva fondato quella rivista “Il Verri” che divenne l’incubatrice del Gruppo. “Noi sapevamo di venire da altri, non abbiamo mai pensato di creare una letteratura nuova: abbiamo cercato di mettere a frutto sollecitazioni e insegnamenti in modo nuovo, elaborando ipotesi, idee perché credevamo che l’arte avesse bisogno di nuova linfa”, ha continuato Curi.
“Avevamo dei padri, ma non erano loro”, gli fa eco Barilli riferendosi a Bassani e Cassola: “questi autori venivano dagli anni Trenta e non andavano bene per la nuova Italia del Boom economico, non corrispondevano più alle esigenze dei tempi, questa narrativa non ci soddisfava perché era datata e tardiva, per quella sua volontà di essere corretta e scorrevole, noi volevamo una prosa ruvida, che seguisse i meandri di una società in divenire”.
Giulio Ferroni non pensa affatto che un’opera d’arte, o meglio l’arte in generale, debba essere in linea con le strutture storiche, sociali ed economiche del suo tempo, anzi la grandezza di uno scrittore come Bassani sta proprio nel suo essere “contro la storia”, nel “guardare indietro perché le contraddizioni del passato non continuino a pesare sul presente”. Non è certo un caso, sottolinea Ferroni, che si debba proprio alla sua consulenza per Feltrinelli la pubblicazione del “romanzo anti-storico” “Il Gattopardo”.

Lungi dall’essere “tradizionale e calligrafico”, per Alberto Bertoni Bassani è un “narratore sperimentale” che con il “Romanzo di Ferrara” ha composto “una delle poche opere-mondo del Novecento”: vi si descrive “una città altra” con “una narrazione polifonica e un punto di vista collettivo”. Secondo il “bassaniano” Bertoni, come lui stesso si è definito, la sperimentalità dello scrittore ferrarese è nella capacità di usare “il discorso indiretto libero in un libro che sia leggibile ai più e non per specialisti”.
Ultima parola a Roberto Pazzi, l’unico relatore che esercita la scrittura creativa e non la critica: “Non è facile scrivere rimanendo a Ferrara con l’ombra di Bassani che costringe sempre al confronto”, ha confessato l’autore. Quello che, a suo parere, ne fa un grande autore è “la religione della laica parola: ho sempre sentito in Bassani il culto della parola poetica che salva la vita del nulla”. “La morte è il tema di Bassani”, ha concluso Pazzi, e “Il Giardino dei Finzi Contini è la tomba di parole per chi non ne ha avuta una di pietra, noi passiamo mentre le parole scritte restano”.

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Federica Pezzoli



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