Quando guardo le mani penso al fare. Certo il fare può essere di tanti tipi, non sempre è un bel fare. “Mani pulite” può essere un esempio di una “politica del fare” non proprio fattibile. “Me ne lavo le mani” può essere un esempio d’indifferenza davvero deprecabile. Essere “maneschi” soprattutto con le donne non è neppure da prendere ad esempio. Per fortuna le mani possono anche creare, lavorare, costruire, accarezzare, afferrare la vita e soprattutto toccare.
Quando guardo le mani, penso al bambino che per capire il mondo, più che vederlo o sentirlo, fa bene prima di tutto a toccarlo. E questo dovrebbe sussistere anche dopo, quando bambini non si è più. “Ci manca il toccare le miserie e il toccarle ci porta all’eroicità, penso a medici e infermieri che hanno toccato il male durante la pandemia e hanno scelto di stare lì. Il tatto è il senso più pieno. Toccare è farsi carico dell’altro”. Queste le parole di Papa Francesco nella sua ultima intervista da Fazio a Che tempo che fa. [qui]
E penso che queste parole mi hanno toccato più di tutto il resto dell’intervista. Un panegirico di ovvietà sicuramente condivisibili, ma anche inevitabilmente banali. Però forse, più che al Papa, è mancata all’intervistatore la voglia di approfondire, di analizzare, di fare domande più smaccatamente rilevanti. Proprio di toccare, chi lo sa. Ciò che invece è mancato a tutti noi dal 2020 è stato il gesto di toccare l’altro. Sentirlo, capire le sue difficoltà, farsi carico delle sue paure, dolori. E ancora ci manca, ora, non ancora abbandonate le mascherine, ma tolti i guanti definitivamente.
L’indifferenza è rimasta, non solo verso le guerre annunciate o ritrattate, verso la fame nel mondo o la crisi climatica, ma anche verso il vicino di casa no vax, l’amico/a gay o il ragazzo di 16 anni morto durante l’alternanza scuola/lavoro.
Quello che penso quando guardo le mani è che di toccare l’altro, noi dovremmo ricominciare a farlo.
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Ambra Simeone
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