Sulla scia dell’attivismo di alcuni influencer, un numero sempre più cospicuo di atleti e atlete sta prendendo posizione su singoli temi, indirizzando così il dibattito pubblico. È un trend, questo, che in un modo o nell’altro contraddistingue l’attualità socio-politica: non c’è battaglia o argomento di interesse generale che non passi attraverso il megafono di personaggi della musica, dello spettacolo e dello sport.
Se per l’appunto diamo un’occhiata allo sport professionistico, e in particolare alle questioni sollevate negli ultimi dodici mesi, è difficile non associare il 2021 alla progressiva normalizzazione dei problemi di salute mentale. L’elenco, infatti, è piuttosto lungo: dai ritiri della tennista Naomi Osaka e della ginnasta Simone Biles alle testimonianze di tre noti giocatori di football americano (Calvin Ridley, A.J. Brown e Lane Johnson), passando per il lavoro di sensibilizzazione svolto dal cestista Kevin Love, che dal 2018 scrive e parla apertamente dei suoi disturbi mentali. Una lista più dettagliata di storie o esperienze simili a quella di Love l’ha stilata ESPN in un articolo pubblicato a metà maggio [Qui].
Tuttavia, le prese di posizione più chiacchierate di quest’ultimo anno sono quelle delle già citate Naomi Osaka e Simone Biles: i loro ritiri da competizioni quali Roland Garros e Olimpiadi di Tokyo hanno messo a nudo un tic piuttosto comune, ossia la narrazione fin troppo eroica degli atleti e delle atlete di successo. Difatti, siamo stati abituati a descrivere i personaggi dello sport come dei performer apparentemente inscalfibili, e il solo fatto di associare il loro nome a disturbi quali ansia o depressione ci è parso una novità.
Osservandolo da più lontano, quello di Osaka e Biles è un messaggio che va al di là dello sport professionistico, e ci suggerisce di non identificare le persone con il loro lavoro, il loro talento o il loro successo. Ci può essere dell’altro oltre al bisogno di eccellere e di essere produttivi. Deve esserci dell’altro.
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Paolo Moneti
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