Vi sarà capitato negli ultimi due anni di osservare qualche atleta professionista inginocchiarsi durante il pre-partita: un gesto che dall’inizio della pandemia in avanti ha assunto un significato più profondo del solito, e che oggi, dopo i fatti di Minneapolis del 25 maggio 2020, è a tutti gli effetti un messaggio di denuncia sociale.
Il primo atleta a inginocchiarsi in campo è stato Colin Kaepernick, ex quarterback dei San Francisco 49ers – una delle squadre più vincenti della NFL, cioè il principale campionato di football americano. Prima di ogni partita della stessa NFL viene eseguito l’inno nazionale statunitense, e nell’estate del 2016 Kaepernick approfittò di quel momento per mostrare, silenziosamente, il suo dissenso verso gli episodi di razzismo sistemico nei confronti degli afroamericani. Così, mentre gli altri giocatori se ne stavano in piedi con la mano destra sul cuore, Kaepernick si inginocchiò più volte, e soltanto alla terza occasione raccolse l’attenzione dei media [Qui]. Fu l’inizio di un’ulteriore presa di coscienza collettiva: quel gesto apparentemente innocente – compiuto tra l’altro in un momento che il pubblico nordamericano vive con solennità – non poté che far parlare di sé, e soprattutto del suo messaggio. D’altronde, soltanto due anni prima erano avvenute le uccisioni di Eric Garner e Michael Brown, entrambe per mano di agenti di polizia bianchi.
Sta di fatto che in breve tempo quel gesto venne emulato, oltre che da decine di colleghi dell’ex quarterback, da artisti quali Stevie Wonder, Eddie Vedder e Pharrell Williams. Tuttavia, nonostante sia un giocatore con esperienza e qualità ben sopra la media, Colin Kaepernick è senza una squadra dal marzo del 2017. In un modo o nell’altro, la NFL lo ha lasciato da solo nella sua protesta: nessuna squadra lo ha ingaggiato in questi anni, e anche l’ultimo tentativo di conciliazione [Qui] con la stessa lega è andato piuttosto male. Nel frattempo, a veicolare il suo messaggio ci ha pensato addirittura la Nike, sponsor tecnico della suddetta NFL, pubblicando nel settembre del 2018 una rivisitazione del suo slogan “Just Do It” con Kaepernick come testimonial. La nuova campagna, criticata tra l’altro da Donald Trump, presentava il seguente motto: “Believe in something. Even if it means sacrifice everything”.
Del resto, quello di Kaepernick è stato una sorta di sacrificio, e in quanto tale non è passato inosservato. Negli Stati Uniti il dibattito sul razzismo è necessariamente all’ordine del giorno, e ciò crea un livello di discussione e di partecipazione che coinvolge qualsiasi altro paese del mondo. Insomma, non solo gesti, ma anche tante parole, come quelle pronunciate dall’attivista per i diritti umani Al Sharpton [Qui] ai funerali di George Floyd.
“Il commissario della NFL ha detto che, sì, forse si sono sbagliati con Colin, e che i giocatori di football avevano il diritto di protestare silenziosamente. Beh, non scusatevi e ridategli il suo lavoro. Non vi presentate con delle scuse vuote: avete preso un uomo, gli avete tolto il suo talento, e quattro anni dopo, mentre il mondo intero sta marciando, chiamate su FaceTime per dire che vi dispiace? Non vogliamo delle scuse, vogliamo che ripariate ai vostri danni.”
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Paolo Moneti
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