TELEMATICA E VECCHI MERLETTI :
Insegnamento a distanza e psicopatologia del voto
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Sono secoli che il modello è questo, per di più in tutto il mondo. Non ci siamo mai interrogati su un suo possibile cambiamento, e perché mai, visto che ha funzionato così bene fino ad oggi in ogni parte del globo. Eppure oggi scopriamo che la scuola non è solo questo. La scuola è cultura civica, fondamentale per la vita quotidiana. Fornisce servizi indispensabili al benessere degli studenti, si prende cura dei bambini mentre i genitori sono al lavoro. Si fa carico degli svantaggi, delle differenze economiche, sociali, culturali. È l’avamposto della democrazia, dell’uguaglianza, della solidarietà, dei diritti costituzionali d’ogni persona. È il centro delle nostre comunità. Ora, se tutto questo viene a mancare, è difficile parlare di scuola.
Non ci si è mai occupati prima di apprendimento remoto, di apprendimento online. La cultura della nostra scuola è ancora quella dell’umanesimo e del personalismo, ha bisogno della corporeità, la presenza dei corpi in aula è quella che si verifica ogni mattina facendo l’appello, è quella che comporta il contare le assenze per decretare la validità dell’anno scolastico. Ha bisogno di vicinanza, di guardarsi negli occhi, di soppesare le persone, di conoscersi, ha necessità di provare emozioni, quelle inaspettate che si vivono nella comunità della classe, ha bisogno di sentire che le parole si muovono nell’aria dell’aula, ha bisogno di tralucere l’umore di ogni singolo alunno e di ogni singola alunna, fino all’umore dell’insegnante.
L’insegnamento a distanza mediato dalle macchine ha il suo antenato nelle teaching machine di Skinner, che da noi non hanno mai preso piede e che negli Stati Uniti sono naufragate miseramente già negli anni ’50 del secolo scorso. Per dire che la macchina, la tecnologia non resta che uno strumento, come la biro che soppiantò il calamaio e il pennino con la cannetta.
Inoltre l’insegnamento a distanza replica la modalità più deteriore della didattica delle nostre scuole: quella trasmissiva da una testa all’altra. Gli ambienti di apprendimento virtuali li avremmo dovuti disporre e sperimentare ben prima dell’urgenza di questo momento, alla loro organizzazione non sono preparati i nostri docenti come i ragazzi non sono attrezzati per la loro fruizione.
A scuola non si dovrebbe insegnare, ma guidare bambine e bambini, ragazzi e ragazze ad imparare ad apprendere, ad apprendere gli strumenti per apprendere in autonomia. Ma se questo può essere sostenuto nelle dichiarazioni programmatiche, nella pratica poi si naufraga nell’insegnamento tradizionale. Eppure dovremmo apprendere per tutta la vita, perché ormai sappiamo che tutta la vita è apprendimento: il lifelong learning. Neppure questo abbiamo compreso. L’abbiamo tradotto come educazione degli adulti, anziché come occasione di rivoluzionare le nostre scuole, come modo di fornire le chiavi epistemologiche del sapere per apprendere ad apprendere in qualunque momento della nostra esistenza, anziché uscire imbottiti di conoscenze che con il tempo cadono nell’oblio. Imparare ad apprendere è però cosa da laboratorio, da bottega dell’artigiano, non da aula né reale né virtuale. Si apprende nella relazione con chi è esperto più di noi, che guida la nostra mano, che ci accompagna e consiglia, che partecipa emotivamente ai nostri sforzi e alle nostre conquiste, si apprende in presenza.
L’insegnamento a distanza è una emergenza e tale deve restare, ma deve essere chiaro che è un salto all’indietro, è un ritorno alla peggiore didattica, un salto nel passato nonostante la modernità delle tecnologie usate
Nel frattempo, mentre troppe famiglie contano i propri lutti, mentre le abituali dimensioni umane e quotidiane sono state intaccate dalla lotta al virus, la preoccupazione del dicastero di viale Trastevere è quella di chiedere agli insegnanti di valutare gli studenti, sostanzialmente di fare le pagelle, come se tutto fosse come prima.
Che, in questa situazione, si proceda a misurare bambine e bambini, ragazze e ragazzi costretti ad una condizione mai vissuta precedentemente da loro e dai loro insegnanti, non può che essere frutto di una grave ed endemica ottusità burocratica. Della tenace resistenza di un archetipo di scuola che può rinunciare all’aula reale per quella virtuale, ma non può venir meno alla psicopatologia del voto, alla morbosità delle classifiche e delle graduatorie anche quando tutti gli elementi costitutivi dell’essere e del fare scuola sono venuti meno. Dove a pagare ovviamente saranno ancora una volta i più deboli, lasciati privi di ogni rete di protezione.
Un paese in cui l’assillo è quello di valutare gli alunni, anziché attrezzarsi per verificare il funzionamento e i risultati di una novità assoluta come l’insegnamento a distanza, fa pensare che difficilmente, quando torneremo a tempi normali, sapremo liberarci dei nostri errori e dell’apparato di una scuola che ormai da tempo mostra i segni della vecchiaia.
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Giovanni Fioravanti
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