Tchoukball: e lo sport diventa etico. “Giochiamo con, non contro”
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Spalmati sulla spiaggia, la sabbia fin dentro le orecchie. C’è movimento, adrenalina nell’aria, una leggera brezza ci fa godere questo primo sole estivo. Sono a Viserba, vicino Rimini, sulla costa del mar Adriatico. Qui si svolge l’“International beach tchoukball festival”: 1300 persone che giocano a uno sport spettacolare alla portata di tutti.
Il Tchoukball nasce in Svizzera (primi anni ’70) da Hermann Brandt, uno dei personaggi più autorevoli della storia sportiva del Paese elvetico. Una di quelle personalità che nascono una tantum e decidono (perché ci credono) che si possa proporre un nuovo modo di fare sport. Basti pensare che il motto di questa disciplina sportiva sia: “L’obiettivo delle attività fisiche umane non è di costruire campioni, ma piuttosto di contribuire alla costruzione di una società migliore”.
A fianco a me ho Irene, 23 anni, da otto in quest’ambiente. La sua famiglia fu una delle prime a farlo conoscere al background ferrarese. Oggi è una realtà ben consolidata: 2 squadre in serie A, 3 in B, l’Under 14 e la squadra dei giovani “da tanto tempo”. “Rimini ogni anno mi permette di fare sfoggio del mio pessimo livello di inglese, qua posso e voglio esercitarmi. – esordisce – Ci sono persone, amici, che arrivano da ogni dove ed è bello vedere come sembra non sia cambiato nulla fra di noi, pur vedendoci poco.” Ci ritroviamo a parlare di amicizia, ma credetemi: parlarne viene quasi spontaneo a giudicare quello che si vede fuori e dentro il campo.
Il pallone è quello della pallamano mentre il campo oggi, in via del tutto eccezionale, è la spiaggia (solitamente si gioca in palestra). Quattro partite in mattinata e altre quattro nel pomeriggio (e la domenica si replica!) con tempistiche di gioco e campi ristretti, ma con la stessa energia che si mette in palestra durante il campionato. Si gioca 5 vs 5 qui (7 vs 7 in campionato), lo scopo del gioco è quello di far punto lanciando il pallone contro un pannello che, avendo una rete elastica, invece di trattenerlo come tutte le normali porte, lo fa tornare indietro velocissimo. Se il rimbalzo cade dentro un’area davanti al pannello (i pannelli sono due e quindi le aree sono due) si regala punto all’avversario, in caso contrario si fa punto. La squadra che difende, ovviamente, farà di tutto per non far cadere la palla una volta che questa ha toccato il pannello: ecco allora che tuffi, capriole e ogni sorta di gesto atletico per salvare quello che potrebbe essere un punto dell’avversario, diventano spettacolo. In maniera particolare sulla spiaggia.
Altro lato simpatico del giocare in questo contesto è rappresentato dalla variabile delle divise, a volte veri e propri costumi, che rappresentano una preponderante di questo torneo: ecco allora che i bagnini di BayWatch scendono in campo, le Sailor Moon e le Api (in foto, Irene Fergnani, vestita da ape). Il gioco è ricco di finte, contropiedi velocissimi ed azioni inaspettate, non vi è nulla di scontato e tutti i giocatori devono seguire costantemente lo spostamento della palla senza potersi mai distrarre, poiché, tutte e due le squadre possono far punto scagliando il pallone su entrambi i pannelli. Non c’è contatto fisico (oltre all’intercetto, anch’esso non contemplato nelle regole di gioco) motivo in più per giocare maschi e femmine insieme.
E, cosa più importante, a tchoukball si gioca CON un’altra squadra, non contro. Gli svizzeri son sempre stati neutrali e, anche in questa circostanza, non si smentiscono. “Il gioco è collaborazione, quindi una sorta di ‘generosità’, bisogna dunque innanzitutto concentrare le proprie azioni, e l’agonismo, sulla palla. Bisogna osservare poi in modo amichevole ogni giocatore. Il dono di sé significa partecipazione collettiva agli avvenimenti in campo: il risultato è quello di “mischiare” le personalità nel confronto reciproco delle reazioni di gioco. Questo orientamento etico è il cardine dell’azione del tchoukball: esso permette di giocare con l’atteggiamento sportivo ideale e di evitare, in ogni circostanza, azioni negative nei confronti degli “avversari”. Tutto ciò è ben più di una semplice regola di gioco: si tratta di una norma permanente che esce dal campo ed entra nella vita, che diventa componente psichica del comportamento e base della personalità sociale. L’obiettivo è dunque quello dell’eliminazione dei conflitti in una identica prospettiva. L’idea del ‘fair play’ è così oltrepassata, non si tratta di semplici concessioni fatte all’avversario ma di azioni comuni che legano le squadre l’una all’altra cosicché il bel gioco dell’una richiama e rende possibile il bel gioco dell’altra.” (Tratto dalla “Carta del Tchoukball”, www.tchoukball.it)
Tutto questo in campo (ma soprattutto fuori) è rispecchiato: le squadre si mischiano di componenti provenienti da diverse zone d’Italia (e non) e una birra post partita è quasi d’obbligo, anche solo per stare assieme, aggiornarsi sul proseguimento delle vite di ognuno, scambiarsi opinioni circa il futuro di questo sport. “Ogni anno, anche se ci sono persone che conosco da una vita, qui le conosco meglio. E’ un modo diverso di stare in compagnia facendo sport: siamo in spiaggia, tutti assieme, lo percepisci. Hai 4 squadre, anzi 8, tutt’attorno a te (i campi sono tutti limitrofi) e, in svariate occasioni, ci si distrae con quello che capita nei campi a fianco)”, mi racconta Irene. E’ una situazione godereccia (tanto è vero che noi stiamo sorseggiando uno spritz ora) creata ad hoc per chi ha voglia di divertirsi pur facendosi carico di valori quali la lealtà (i punti “contro”, cioè quando la palla cade dove non deve, devono essere chiamati da chi ha commesso l’infrazione) e il rispetto dell’avversario (con strette di mani, abbracci e foto mista di squadra alla fine) durante le partite.
Irene ha anche ottenuto uno scudetto: “Quando lo abbiamo vinto, eravamo prima un gruppo di amici, poi una squadra. Questo legame ci ha portato alla vittoria quell’anno, insieme all’entusiasmo degli esordi dove lo sport lo sviluppavamo noi” e ha indossato la divisa dell’Italia, rappresentata per la prima volta agli europei del 2008: “Giocare per la Nazionale vuol dire aver tanto orgoglio per ciò che si è ottenuto, allenamento dopo allenamento. L’andare via tutte in divisa, ricevere la medaglia e soprattutto cantare l’Inno del Paese in cui sei nata, sono occasioni che pensi non ti capiteranno mai nella vita, e invece… Particolarmente bello fu giocare ai Mondiali nel palazzetto dello sport a Ferrara, la mia città”.
Stanno cominciando a smontare le postazioni attorno ai campi, sono ormai le 20 e da qui vorrei non andarmene. Da lontano mi avvisano che stasera ci sarà una festa in spiaggia, vado a cambiarmi, mangio qualcosa e poi via fuori – con chi non lo so – ma poco importa: qua siamo tutti amici.
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Alessio Pugliese
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