Ho sentito spesso mamme riferirsi al loro bambino con l’espressione “tanto è un maschio”. La frase suona in apparenza come una svalutazione del maschio rispetto alla femmina. In realtà la frase e l’idea di differenza che la sostiene, pone il bambino fin dalla prima infanzia, in una posizione di superiorità, dispensandolo da certi compiti.
Occorrerebbe trattarlo come si tratterebbe una figlia. Soprattutto nel caso in cui si abbiano un maschio e una femmina è evidente la differenza che fanno sia le madri che i padri nel rapportarsi con uno o con l’altra. L’educazione è permeata da stereotipi culturali che condizionano il tipo di messaggio passato da una generazione all’altra. Basta osservare i giochi per le bambine e i bambini per accorgersi di quali significati veicolano gli uni e gli altri. I giochi per le bambine abituano a un gioco fin da subito più sul piano del simbolico, i giochi per i bambini coinvolgono di più solitamente il corpo e l’azione.
Ho ascoltato troppo spesso mamme mentre raccontavano di come chiedevano solo alla figlia femmina di sparecchiare dopo cena, lasciando andare il maschio a guardare la tv. Per poi stupirsi successivamente di come il figlio non le aiutasse mai in casa. Bisognerebbe insegnare l’uguaglianza nei diritti, ma soprattutto nei doveri fin da piccoli. Solo così si potrà far capire al figlio maschio fin da subito, ad esempio, che occuparsi della casa è una fatica che andrà condivisa con la persona che amerà.
Non bisognerebbe usare frasi come “non piangere che è da femminuccia”, perché così non si abitua il bambino a verbalizzare le emozioni e a saperci fare con esse da adulto. Possono crescere così maschi non in grado di manifestare le emozioni nel modo corretto fino ad arrivare a casi estremi in cui le emozioni vengono espresse attraverso atti violenti. È importante educare alla verbalizzazione fin dall’infanzia per non avere adolescenti incapaci di esprimere emozioni e di provarle oppure adulti non in grado di gestire la rabbia ad esempio.
Bisogna parlare coi figli e chiedere di parlare, non in modo intrusivo certo ma mostrando una disponibilità all’ascolto attivo. Non archiviare tutto con un «è un maschietto, certe cose se le tiene dentro». I pregiudizi sul maschile e femminile veicolano significanti che condizionano e strutturano il comportamento successivo. Occorre insegnare ad aprire un dialogo, a chiarirsi, a confrontarsi. Far capire com’è importante usare le parole, l’intelligenza, anche la furbizia, al posto della violenza. Spiegare come «stendere» una persona con un discorso, non con un pugno. E fare capire che la violenza si combatte con il dialogo, con le domande, con la comprensione, non con altra violenza. Altro punto fondamentale è il posto dato al figlio all’interno della famiglia. Il figlio maschio non può essere messo, come spesso purtroppo accade, al posto dell’uomo: non è un fidanzato o un marito. È un figlio, e un giorno dovrà andare via e amare altre persone. Bisogna spingerlo ad andarsene un pochino ogni giorno. E’ sicuramente emozionante sentire il tuo bambino che ti dice «ti amo», ma poi, ad un certo punto, dovrà dirlo ad un’altra persona. E non potrà cambiare improvvisamente: dovrai essere tu, mamma, giorno dopo giorno, a fargli capire che c’è un mondo là fuori che aspetta lui e tutto il suo affetto. Una madre non deve apparire perfetta agli occhi del figlio, perché non lo è e non lo deve essere, anche perché altrimenti il confronto con le altre donne diventa sempre perso in partenza perché mai nessuna sarà all’altezza della MAMMA. Le nuove famiglie pongono altre questioni che rimando ad un prossimo articolo.
Chiara Baratelli, è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
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