Sull’orlo del baratro: il Venezuela e la (quasi) guerra civile
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Articolo aggiornato alle 08:42 del 25 gennaio 2019
Nelle ultime ore il Venezuela sta attraversando una delle peggiori crisi sociali degli ultimi decenni. Il presidente del Parlamento, eletto a gennaio, si è autoproclamato nuovo presidente del Venezuela, sconfessando Nicolas Maduro e gettando benzina sul fuoco in una situazione economica e sociale già molto difficile.
Chi è Juan Guaidó
Trentacinque anni, ingegnere, cresciuto a La Guaira, città vicino Caracas. Ha iniziato a fare politica nel 2007, durante le proteste studentesche contro Hugo Chávez. È un seguace di Leopoldo López, agli arresti domiciliari dal 2014 proprio per la sua opposizione al regime ‘chavista’.
È stato eletto presidente del Parlamento, governato dalle opposizioni ma reso improduttivo da Nicolas Maduro, ed è l’esponente di spicco del partito Voluntad Popular, tra i più radicali della coalizione Mesa de la Unidad Democràtica, raggruppamento di opposizione dell’Assemblea Nazionale.
Finora praticamente sconosciuto, è appena diventato famoso sullo scenario internazionale per essersi proclamato presidente del Venezuela mercoledì 23 gennaio, dopo un solenne discorso a culmine delle proteste indette nel paese contro Maduro.
La reazione internazionale
La prima reazione in campo internazionale è stata quella di Donald Trump. Il tycoon non si è fatto attendere è ha dichiarato che Guaidó è ufficialmente il presidente del Venezuela. In sequenza anche il Canada e l’Unione Europea l’hanno riconosciuto come presidente ad hinterim. Altri che hanno riconosciuto ufficialmente Guaidó sono il Brasile di Bolsonaro, la Colombia, l’Argentina il Guatemala, il Costa Rica il Perù e l’Ecuador.
La reazione di Maduro
La reazione del presidente non si è fatta attendere. La prima mossa è stata contro i gringos: 72 ore di tempo a tutti i funzionari statunitensi per lasciare il paese. Denunciando il tentativo di golpe e dichiarandosi l’unico legittimo presidente, il successore di Chávez ha ottenuto dagli alleati storici il pieno sostegno. Infatti la Turchia, Cuba, il Messico non hanno riconosciuto il nuovo presidente, confermando Maduro quale unico interlocutore.
Russia e Cina
Quello che preoccupa, oltre alla situazione sociale sempre più disastrosa, è la reazione dei due maggiori creditori e alleati del Venezuela. Putin e Xi Jinping, infatti, hanno fatto lauti investimenti e prestiti nel paese garantendosi, come contropartita, di poter usufruire dei giacimenti di petrolio presenti. Il Venezuela, infatti, ha i giacimenti di greggio più grandi al mondo, il che lo rende uno Stato potenzialmente ricco, ma l’alto tasso di corruzione, le tecnologie antiquate, l’economia non diversificata e l’embargo attuato dagli Usa fanno sì che il tasso di povertà della popolazione sia altissimo.
Situazione sociale
Quello che sta distruggendo il Paese è la fortissima inflazione. Il bolivar, moneta locale, è oramai carta straccia. L’unica valuta utile per acquistare qualcosa è il dollaro americano. Il tasso dell’inflazione si aggira intorno ai 10 milioni per cento. In pratica se qualcosa costava un dollaro ora ne costa 100 mila. In questa situazione a poco sono valsi gli aumenti di salario, e la gente vive letteralmente senza più cibo e medicinali. La bomba sociale si è trasformata in una vera e propria crisi umanitaria, con migliaia di venezuelani che ogni giorno cercano di abbandonare il loro Paese. Basti solo pensare che negli ultimi anni più di un milione di venezuelani ha cercato di lasciare lo Stato. Numeri paragonabili alla crisi siriana.
Possibili scenari
Il ‘golpe’ di queste ore crea ulteriore incertezza in una zona da bollino rosso: a Caracas si contano già 26 morti a causa delle proteste. Tutto questo, come già accennato, causato da un’inflazione frutto di una gestione errata dell’economia. Pur essendo una nazione ricca di risorse naturali e soprattutto di petrolio, il Venezuela ha un’economia basata solo sull’export dell’oro nero. La conseguenza: dipendenza dal dollaro e dalle oscillazioni del prezzo del greggio a livello mondiale. Molte sono state le azioni attuate per sopperire a questo problema: per esempio, lo scambio di petrolio in cambio di medici con l’alleato storico cubano. Ma non è bastato.
Naturalmente in questa situazione politica così instabile e incerta, gli equilibri internazionali si fanno più che mai delicati: da una parte i gringos che vorrebbero estendere il campo di influenza su uno dei paesi più ricchi di idrocarburi; dall’altra Russia e Cina che hanno un saldo altissimo di credito con il paese di Maduro. La rivolta di queste ore è un chiaro segnale di insoddisfazione da parte dei parlamentari, stretti nella morsa di un potere tolto da Maduro e senza interlocutori, sbeffeggiati soprattutto dalle sinistre mondiali. All’esterno poi, Stati-cowboy pronti a tutto pur di avere il controllo e un alleato nel continente latino americano. Una situazione in veloce declino verso lo scontro sempre più violento; uno scenario da guerra fredda, con i due blocchi già scesi in campo.
È altrettanto significativo, infine, come tutto ciò sia accaduto a pochi giorni dalla salita al potere di Bolsonaro in Brasile.
In sostanza è un intreccio pericoloso il Venezuela, intreccio tra affari molto grossi e una popolazione stremata da politiche che l’hanno ridotta alla fame. Un paese in balìa della povertà e della violenza, che sicuramente deve essere cambiato, ma il rischio è che cambino solo gli alleati, non lo Stato autoritario. La tentazione è forte, la storia ce lo insegna: dove ci sono interessi economici, la democrazia passa in secondo piano. Allende docet.
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Jonatas Di Sabato
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