Sulla fotoreporter Anja Niedringhaus uccisa in Afghanistan
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Alla vigilia delle elezioni presidenziali, in Afghanistan sono aumentati gli attacchi dei tabliban che hanno dichiarato di fare guerra alle elezioni, scatenandosi contro amministratori, militanti dei partiti, ong e giornalisti. Anja Niedringhaus, fotoreporter di guerra e amica della nostra associazione “journalisten helfen journalisten”, è stata uccisa da un poliziotto. Si trovava a Khost, al confine col Pakistan, con un’amica e collega canadese. I funerali hanno luogo oggi 12 aprile.
Anja Niedringhaus era l’unica donna nel team di fotografi dell’Ap insigniti del premio Pulitzer nel 2005 per la copertura della guerra in Iraq. Celebre il reportage dopo l’attentato alla base italiana di Nassirya e la strage dei carabinieri italiani.
“Anja e Kathy hanno passato anni insieme per coprire l’Afghanistan, il conflitto e la sua gente”, ha detto Kathleen Carroll, Ap executive editor. “Anja era un’appassionata, dinamica giornalista, molto amata per le sue foto, il suo cuore e la gioia per la vita.”
Anja era nata a Hoexter dove, a 16 anni, iniziò a lavorare come freelance per un giornale locale. Poi gli studi universitari in letteratura, filosofia e giornalismo a Goettingen. Arriva il 1989, il Muro crolla e grazie alle sue foto Anja entra a far parte della European press photo agency (Epa), il celebre network europeo di immagini. Nel 2002 entra nella Associated press (Ap) facendo base a Ginevra. Oltre a coprire i conflitti in atto, seguiva anche i Giochi olimpici, ben nove quelli al suo attivo. Nel 2005 il Pulitzer per l’Iraq, l’anno dopo il prestigioso Premio al coraggio della Fondazione internazionale donne nei media. E poi ancora riconoscimenti a pioggia per le sue immagini, messe in mostra nei musei di Francoforte, Houston, Londra, Vienna.
Poco prima della sua morte Anja Niedringhaus è stata intervistata al telefono da una giornalista tedesca. Questa intervista, purtroppo, è diventata una specie di testamento/eredità. “Perché sei diventata proprio fotoreporter di guerra?” le chiede la giornalista, “Perché – risponde Anja – è una professione con quale si può impregnare la memoria collettiva di tutti noi. A me non interessano tanto la battaglia e il conflitto militare in sé. Le storie più interessanti succedono sempre accanto allo scontro a fuoco. Sono molto più interessata alla vita reale della gente sul luogo, piuttosto che alle raffiche di mitra e agli scontri violenti. Per esempio, nel 2004 ho fatto scatto ad un militare americano a Falludscha (Irak) che durante una battaglia porta in spalla una mitra e una bambolina come souvenir o amuleto portafortuna […] Attraverso la mia esperienza come fotoreporter in Afghanistan, ma anche in Pakistan o a Sarajevo, sono diventata una pacifista sempre più convinta. Non si può risolvere nessun problema con le armi”. E chiude l’intervista con un ultima frase: “Posso solo sperare che il mio lavoro serva un po’ a migliorare il mondo“. Adesso sta a noi realizzare, con la nostra professione, il suo desiderio.
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Carl Wilhelm Macke
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