Al Festival di Roma Riccardo Muti ricorda il suo rifiuto alla regina Elisabetta, che lo avrebbe voluto a Buckingham Palace non per dirigere un concerto ma per avvallare con la sua presenza un’operazione mediatica. Da questo tema il regista Paolo Sorrentino ha tratto spunti per i suoi film. Oggi Francis Ford Coppola racconta il suo incontro con il Maestro nel 1962, quando suonava in casa di un cugino. Questo personaggio, che riscuote l’approvazione e l’ammirazione di milioni di persone famose o meno, è un amico vero e costante e per questo motivo mi sembra doveroso e nello stesso tempo gratificante ricordare il nostro ultimo incontro, guarda caso, proprio in occasione del concerto delle Vie dell’Amicizia al Ravenna Festival.
Nelle afose giornate che hanno caratterizzato questa torrida estate era imprescindibile recarsi al Ravenna Festival per il concerto che l’amico carissimo Riccardo Muti avrebbe tenuto nella sua città adottiva. Ma è da Ferrara che ha inizio questo fantastico viaggio dell’Amicizia, che da Ravenna si dirige verso Otranto dove in una cattedrale si celebra la fratellanza: segno della pietas per sempre espressa nell’immenso albero della vita del pavimento della chiesa, segno visibile della Gerusalemme terrena che si lancia nei misteri della Gerusalemme celeste dove trova la sua conclusione e la sua spiegazione.
A Ferrara chi si reca alla splendida Pinacoteca Nazionale dei Diamanti si imbatte in un misterioso e commovente dipinto di Simone de’ Crocefissi. Una giovane donna è stesa su un lettuccio, assopita, un’altra legge in un angolo col viso appoggiato al palmo della mano. Dal ventre della ragazza addormentata fuoriesce un immenso albero che nel suo centro porta il Cristo in croce e si conclude con il nido della fenice che risorge dalle proprie ceneri. Nella simbologia del dipinto troviamo non solo la storia dell’albero di Jesse da cui discende Cristo della stirpe di David, ma la sua funzione di salvamento e di redenzione simboleggiata dalla mano che accoglie e raccoglie i giusti nati senza battesimo e che Cristo salva, come si vede anche nel sublime affresco della terza cappella laterale del Monastero di Sant’Antonio in Polesine sempre a Ferrara.
L’Arbor vitae come idea di fratellanza e di possibilità di riunione nel segno del Cristo. Cosa ci potrebbe essere di più simbolico di questo segno che dovrebbe siglare la dolorosa odissea dei migranti?
Il significato dell’Albero della vita ha tradizioni molteplici: da quella ebraica legata alla Qabbalah a quella cristiana, senza dimenticarne i riflessi nelle religioni orientali, fino ad arrivare allo straordinario fregio dipinto da Gustav Klimt per la sala da pranzo di palazzo Stoclet a Bruxelles del 1909. I significati, dunque, rimandano a una complessa iconografia che raggiunge la sua massima espressione nel pavimento della Cattedrale di Otranto, dove questa Via dell’Amicizia ha raggiunto il suo traguardo
Il pavimento della Cattedrale di Otranto fu commissionato nel 1163 dall’arcivescovo di Otranto Gionata e fu eseguito dal monaco Pantaleone. “Suo intendimento è riprodurre con immagini quanto i suoi confratelli insegnavano e studiavano nel suo Monastero”, scrive don Grazio Gianfreda. “Rivela che Oriente e Occidente sono una distinzione richiesta dal tempo e dalla storia; che non rappresentano lo scontro di due culture, bensì il compendio di una sola cultura che sa conservare la propria identità anche attraverso le mutazioni imposte dagli eventi”.
Ecco il punto nevralgico: ricordare, di fronte all’intransigenza di certe forme d’intolleranza dettate dal credo religioso, come la cultura da cui nascono e si sviluppano i segni della storia sia unica e si leghi a quel concetto di amicizia e di fraternità tra i popoli sempre e continuamente messa in discussione dalle avidità mentali, culturali, economiche di cui conosciamo assai bene i riflessi.
E come dimenticare l’orrore delle crudeltà dell’Isis verso uomini e monumenti che ne è purtroppo la palpabile conferma? O il flusso inarrestabile di chi fugge da luoghi un tempo patria e ora ridotti a campi di battaglia? Come del resto testimonianza storica sono i martiri che riposano nella cappella a loro dedicata nella cattedrale di Otranto e che s’immolarono per difendere la città dall’assalto musulmano soggetto del bellissimo romanzo, “L’ora di tutti” di Maria Corti.
Riccardo Muti ha concepito un programma di severa intransigenza musicale, senza nulla concedere alla notorietà dei brani o al virtuosismo della sua magistrale conduzione. Risentirlo anno dopo anno, dagli esaltanti tempi fiorentini fino a questa potenza della maturità, fa pensare non solo al valore e alla necessità dell’esperienza che affina e arricchisce chi è dotato di una genialità che non è, come mi hanno insegnato i miei maestri, dono inconsapevole, ma duro lavoro e coscienza del fare.
All’abbraccio in camerino dopo il concerto ravennate mi chiede: “E allora cosa pensi del vecchio Muti?” La risposta non può che essere “Sei unico”. Eppure nella dedizione totale alla musica che ha siglato il suo percorso artistico c’è un nota fonda che si esprime in quella specie di intransigente culto per la filologia e per la parola autoriale. Basterebbe sentire la sua esecuzione ravennate del “Te Deum” di Verdi, un pezzo facilmente conducibile all’emozione del sentimento. Ma sentire l’uso dei pianissimo che ne fa il Maestro ci induce a riconoscere una maturità di pensiero che si ottiene dopo anni di strenuo lavoro sui testi e contestualizzando la musica nel suo tempo e nella scelta autoriale.
Nella straordinaria esperienza fiorentina che ho potuto condividere con Riccardo Muti l’impeto della giovinezza si sommava con un serissimo e irrinunciabile rispetto per la scrittura. E non era da tutti i giovani musicisti, per quanto geniali, partire da questo principio. Non a caso nella sua autobiografia racconta come il senso della sua direzione partisse dalla scrittura autoriale per capirne il senso e per ritornare, nel rispetto della musica, al significato originale che l’autore ha voluto esprimere. Mai in Muti ho potuto notare qualsiasi propensione che rimandasse alla spietata analisi con cui un altro genio come Federico Fellini aveva giudicato il ruolo del direttore in “Prova d’orchestra”. Negli anni Ottanta in America a Muti venne conferita l’ennesima laurea honoris causa ed io dovevo tenere una conferenza sul rapporto tra Manzoni, Verdi e il Romanticismo italiano. In inglese! Per me difficilissimo da parlare, specie per l’uso di quei tecnicismi che solo un grande amico scomparso, il musicologo Thomas Walker, seppe risolvermi. La sera prima della laurea arrivò Philip Glass con la revisione filologica del Don Carlos di Verdi. Ricordo quella nottata passata nei corridoi dell’albergo a sentire quei discorsi, per me quasi incomprensibili, intervallati da scoppi di sana allegria che così spesso rendono umanamente straordinaria la vena partenopea del direttore.
A Firenze poi il trionfo di Muti fu siglato nel 1976 dalla straordinaria esecuzione di “Orfeo ed Euridice” di Gluck. Regia di Ronconi, scenografia di Pier Luigi Pizzi, costumi di Umberto Tirelli. Credo che Muti ricordi ancora oggi con emozione quello spettacolo. Lui, che a volte – giustamente – pensa che la regia dell’opera remi contro la filologia dell’esecuzione, si misurò con il genio di Ronconi. Quel regista a cui Ferrara deve tanto non solo per gli spettacoli ariosteschi, ma per il “Viaggio a Reims di Rossini” o per un capolavoro come “Amor nello specchio”, massimo risultato della regia novecentesca, che provocò mugugni e accuse dai non proprio entusiasti ferraresi.
Nel 1977 il binomio Muti-Ronconi allestì il “Nabucco” verdiano le cui scene erano letteralmente inquadrate da enormi cornici dorate. E che emozione quando al momento del “Va pensiero” la cornice lentamente calava sulla folla degli ebrei schiavi e li fissava in una atemporalità fatta di silenzi e di pianissimo.
Auguro al caro amico Riccardo una maturità ancora più compresa nella consapevolezza che la musica non è solo bellezza o rispecchiamento del tempo, ma straordinaria capacità di saper costruire, guidati dalla sua bacchetta, l’heimat, la casa dello spirito, a cui si giunge dopo rigorose esperienze per affermare mannianamente la nobiltà dello spirito.
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Gianni Venturi
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