Le storie di Costanza. Una pizza per Guido
Ieri mattina Guido è uscito da casa più tardi del solito. Era stanco e non aveva voglia di prendere la macchina, andare in università a Trescia e fare esami di Storia. “Ciao Giada” mia ha detto mentre usciva e non si è nemmeno voltato per vedere se gli sorridevo. Di solito, lo fa sempre, odia aprire la porta, lasciando dietro di sé del malumore, ma ieri mattina non aveva proprio voglia di uscire, poi si è fatto forza ed è andato via senza voltarsi.
La settimana scorsa è morta sua madre dopo una brutta malattia, purtroppo. Sono andata anch’io a Trieste al funerale. La morte di un persona care è sempre un grande dolore. Una corda che si spezza e che non si riattacca più. Un pezzo di carne che viene tritato dalla macelleria della vita e che tale rimarrà. Nel dolore di una perdita c’è il troppo freddo, il troppo caldo, il troppo amaro, il troppo salato, lo smarrimento, la fuga, il rimpianto.
Guido, da persona introversa qual è, parla poco di questo evento drammatico appena avvenuto, ma io vedo i segni sul suo viso. È come se la sua mobilità facciale si fosse ridotta. Come se i muscoli ci mettessero troppo tempo a muoversi e, in questa strana lentezza, lasciassero passare un po’ di tristezza. Come se il dolore albergasse tra la carne e i nervi del suo volto e facesse capolino a modo suo.
Sono alcuni giorni che ha anche il viso stranamente rosso. Lui dice che ha preso il sole passeggiando con Reblanco (il suo cane) sul vialetto dei castagni, ma secondo me non è così. È un rossore da apprensione, da tensione. Il sangue circola molto veloce perché i battiti cardiaci sono accelerati dal dispiacere. La velocità sanguigna è più sostenuta del solito e il suo viso è contemporaneamente un po’ rallentato e un po’ arrossato.
Non vuole che gli si parli di malattie, dolore, morte, funerali, tombe e questo è comprensibile. Ne ha già sentite troppe di queste storie. Anche un suo fratello è morto e anche un suo caro amico, il professor Edo. Lo conoscevo anch’io, una cara persona.
L’ho guardato mentre usciva e non sono riuscita a sorridergli, tant’è … sarebbe stato inutile, lui non si è girato per vedere se lo facevo. Mi chiedo come si possa aiutare un uomo in un momento così difficile e poi penso che sia necessario fare dei distinguo a seconda della persona, del carattere, dalle esperienze e dalle aspettative.
Ognuno di noi ha un suo modo per rimanere ancorato alla vita quando muore un parente caro. Ognuno di noi trova un suo modo per riprendere a camminare con le sue scarpe di pietra sulle strade del mondo.
Ho visto che apprezza l’equilibrio, a maggior ragione adesso. Non vuole che nessuno lo guardi con compatimento e nemmeno che rida raccontando assurdità per nulla consolatorie. Credo che questo valga un po’ per tutti. Nelle buone relazioni (quelle che capiscono e imparano) ci sta la comprensione e la complicità e anche la capacità di trovare la giusta via, quella strada unica e un po’ accidentata che permette di camminare insieme senza troppo sforzo.
Così lo consolerò senza fare nulla di strano, proverò semplicemente ad esserci. Se parlerà lo ascolterò e se non parlerà non lo ascolterò. Penso che in un dolore grande si riattualizzino tutti i dolori già passati. È come se in un unico dolore si riaddensassero tutti gli altri diventando attuali, materia di esplorazione e rielaborazione. È come se col lutto attuale si dovessero rivisitare tutti gli altri con una nuova lente e una nuova onestà.
Posizionare una perdita nel cimitero interiore è come rimettere in fila tutti i grumi di dolore in una nuova collana che li assembla tutti e che permette una nuova comprensione. Grazie a questa nuova esplorazione rivisitiamo noi stessi: quel che siamo stati con le persone che sono morte, quel che siamo riusciti a comunicare loro, quanto siamo riusciti ad essere in sinergia, empatici. Attraverso l’empatia che le buone relazioni permettono, incontriamo gli altri e scopriamo noi stessi. Ritroviamo un nuovo mondo e insieme ritroviamo un senso.
L’elaborazione del lutto e di tutti i lutti che con lui si rivitalizzano, porta a un nuovo modo di sentire l’esistenza, di percepire il tempo che scorre, di accogliere la mancanza e la separazione. In momenti così difficili si può anche cogliere il vero senso della vita, oppure no. Si può sentire con forza la presenza di chi ci vuole bene, la speranza, oppure no. Non è di certo attraverso l’esperienza della morte che si perde la speranza, non necessariamente la si ritrova.
È invece attraverso l’esperienza della solitudine che ci si avvicina alla morte, a un senso di fine imminente che non prevede alcuna comunione umana. Ma questa è un’altra strada oscura, un altro dramma che si consuma ogni giorno davanti ai nostri occhi, perpetrato dalla nostra indifferenza, dalla indifferenza di tutti.
Sto pensando a cosa posso fare per far sorridere Guido. Credo che tanti “paroloni” non servano e che la mia complicità sia inutile da esplicitare. Credo che stasera scenderò le scale e andrò a prendere una pizza sotto casa mia, da Giacinto. Le pizze qui sono buone, le fanno anche dolci. Credo che ne prenderò tre. Due alle verdure e una con la crema di cioccolato. A Guido piace la pizza.
Poi prenderò una birra scura per lui e una lattina di aranciata per me. A me non piace la birra. Guido lo sa, anche se non ha mai smesso di stupirsene. Una volta, molti anni fa, ha insistito perché io provassi a berne una, era convinto che la mia repulsione per la famosa bevanda gialla fosse un rifiuto dovuto a un qualche blocco di tipo cognitivo. Ma non è così. Io odio la birra. Quella notte ho vomitato e, da allora, di birra non ne abbiamo mai più parlato. Lui la beve e io no.
Mi metterò un vestito panna con le foglie verdi e per una volta le maledette scarpe col tacco. Gli piacciono. Per quale motivo non dovrei fare qualcosa che gli piace, a maggior ragione in un momento come questo?.
Se le scarpe col tacco servono ad ancorare un po’ di pensieri al tempo presente e a sospenderli dal dolore, perché non lo dovrei fare? Quindi lo farò.
Penso a lui adesso e poi penso a molti anni fa, quando abbiamo cominciato a frequentarci. Quanto era tutto diverso, quanto era a volte bello e a volte brutto. Anche adesso è così, a volte è tutto bello e a volte tutto brutto. È la vita che è così, è il suo scorrere a volte lineare e a volte tumultuoso che è così. Siamo nel tempo e poi non ci saremo più. Siamo nella vita e poi la lasceremo.
Ho capito che bisogna massimizzare il tempo in cui ci siamo, che bisogna dare senso, verità e rigore a ogni attimo che viviamo, perché potrebbe essere l’ultimo o perché, al contrario, potrebbe essere l’ennesimo in una fila interminabile di piccoli attimi eterni.
Mi accorgo di essere stanca di questo mio pensare, di questo riflettere sulla morte, su Guido e su tutto ciò che questa ultima settimana si è portata via. Si è anche portata via un po’ del suo sorriso, bene prezioso e importante, bagliore nella nebbia e attimo che brucia come il fuco.
Vado in garage e prendo la mia bicicletta. Salgo in sella e poi pedalo verso il fiume. Nel pedalare ritrovo un ritmo, un modo di rimettere in sincronia il tempo con la vita, ogni pedalata un respiro e ogni respiro un po’ di tempo in più. Mentre pedalo verso il fiume, ritrovo un po’ di me.
Mi sorprendo a pensare al Lungone, allo scorrere lento di quel fiume largo e profondo che qui accompagna la vita di tutti. Ieri è stata a casa mia Costanza Del Re, la prima fidanzata di Guido. È venuta a fargli le condoglianze. Mi sembra che Guido abbia apprezzato. Sempre molto gentile Costanza.
Sono stati un po’ a parlare seduti sulle sedie di vimini del mio balcone. Parlavano a bassa voce un po’ piegati in avanti per sentirsi tra loro. Devono aver parlato di vicende passate, di quel loro amico comune morto giovane. Una morte che li ha lasciati sgomenti e che ha consolidato la loro amicizia.
Condividono un dolore, un senso di abbandono e di riunione che durerà per sempre e che li riporta allo stesso sorriso, alle stesse mani belle che si muovevano sul sofà di via Santoni Rosa. Dopo la morte di Tito la vita di Costanza non è più stata la stessa e Guido lo sa. Anche Guido conosceva Tito ed è questo che ha creato tra loro un ricordo condiviso e perenne, una forte complicità.
Continuo a pedalare verso il fiume. Guardo l’acqua del Lungone che scorre silenziosa e che porta via tutto. Porta via il tempo del dolore e quello del rimpianto, porta via la sofferenza e anche la pietà. Mi fermo, scendo dalla bici, mi avvicino all’argine guardo l’acqua da vicino.
L’acqua riverbera il viso di Guido i suoi occhi neri e il suo sorriso. Riverbera anche i suoi pensieri e le sue arrabbiature. Penso che lo amo così com’è e che darei qualunque cosa per vederlo sereno anche adesso che è quasi impossibile, soprattutto adesso che è quasi impossibile.
Poi ripenso alla pizza, alla birra, alle scarpe coi tacchi. Forse tutto questo un sorriso porterà, forse un po’ di buio lascerà spazio all’alba e il cielo si rischiarerà. Forse dovrei scrivergli che mi dispiace per quello che è successo, che la vita continuerà. Forse dovrei scrivergli che nella morte c’è molto distacco ma anche la pace eterna, che il Paradiso aspetta tutti e che prima o poi anche lui lo vedrà.
Ma per fare questo ci vorrebbe Costanza Del Re che fa la scrittrice di professione. Io purtroppo non sono brava a scrivere quel che penso e quel che sento. Risalgo in sella e ricomincio a pedalare. Non so stasera cosa riuscirò a dire a Guido.
Forse gli dirò “Mi dispiace” e forse una parola basterà e poi mangeremo la pizza e con lei un po’ di tempo leggero tornerà.
Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]
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Costanza Del Re
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