di Liliana Cerqueni
Lo si trova tutti i giorni sulle panchine del parco pubblico, ormai è parte integrante di quello spazio verde come la fontana, la statua di Galilei fasciata da graffiti colorati, le aiuole di azalee spennacchiate, la colonnina dell’idrante che perde acqua e qualche fazzoletto di prato freschissimo rimasto integro. Stephan è conosciuto in quel quartiere difficile, dove anche i giardini sono ormai zona di tossici e sbandati, dove i ragazzini girano e sbraitano senza controllo ad ogni ora del giorno e della sera e le donne gridano ancora più forte del viavai di motorini elaborati che impestano l’aria. Una scena urbana consueta, fatta di suoni, rumori e colori di ogni tipo che negli ultimi anni è diventata ancora più movimentata. Ora si spaccia tranquillamente per strada e la gente gira alla larga da qualsiasi cosa desti sospetto o inquietudine. Non si ferma nemmeno se qualcuno è rovesciato sull’asfalto in crisi di astinenza. Tirare dritto sembra essere la scelta migliore, quella che garantisce incolumità e sicurezza. Fa’ gli affari tuoi, è la parola d’ordine per tutti, che gli altri si arrangino. Un quartiere che vive di espedienti, dove il più furbo, il più scafato, il più duro, ha il monopolio delle situazioni e il controllo sulle vite degli altri. Stephan è là, in mezzo a quella gente con la quale vive senza mescolarsi ad essa, condividendo strade, piazze, vicoli e panchine, angoli di metropolitana e stazioni ferroviarie. Di giorno cammina, quando è in grado di camminare perché le varici gli gonfiano le gambe e lo fanno soffrire. Si sposta con metodicità, sembra avere una sua mappa ben precisa in testa, un GPS tutto suo che lo porta verso percorsi ordinati fino alla meta di turno. Di sera cerca un posto per la notte, di solito in qualche androne non troppo controllato. E quando arriva la notte, coperto da un doppio strato di cartoni, perde conoscenza dopo l’alcol trangugiato senza ritegno e lo sfinimento che la vita randagia gli provoca. E’ un uomo di sessant’anni, magro di quel magro consumato, quello che noti e ti desta compassione perché pensi subito alla fame vera. I suoi abiti sembrano puliti ma sicuramente consunti, troppo larghi e spesso inadeguati. La Caritas, racconta lui, fa miracoli: riesce a trovarti di tutto, perfino il berretto di finta pelliccia che lui aveva chiesto per l’inverno. E ti garantisce un pasto caldo, anche un letto per i periodi in cui si gela e una mano tesa che, anche vuota, risulta salda e rassicurante. Esistono autentici angeli che girano in quelle zone, discreti e gentili, che vigilano su quella parte di umanità allo sbaraglio, sull’orlo del precipizio, in balìa di se stessa, ma fanno quello che possono, misurandosi spesso con il fallimento. Stephan, ovvero ‘il tedesco’, così lo chiamano comunemente tutti, talvolta sparisce per periodi interi, per poi riapparire sulle sue panchine come se niente fosse. “E’ in ferie!” ridono gli altri vagabondi più stanziali e abitudinari, ma nessuno sa dove vada. Ha la pelle del viso a chiazze, disidratata e rinsecchita da sembrare vecchio cuoio, indicatore di bevute colossali frequenti, trascuratezza e alimentazione carente. Ma soprattutto poco amore per se stesso. Passa dalla tristezza profonda all’allegria con una rapidità sorprendente e quando l’effetto dell’alcol si fa più intenso, ridacchia, intona la Canzone di Lorelei, la poesia di Heinrich Heine, con una voce calda ed emozionata o fischietta Tristano e Isotta di Wagner con virtuosismi sbalorditivi.
Ich weiβ nicht was soll es bedeuten,
Dass ich so traurig bin;
Ein Märchen aus alten Zeiten,
Das kommt mir nicht aus dem Sinn.
…
Non so cosa significhi,
Che sono triste, così triste;
Una storia d’altri tempi
Persiste nella mio pensiero.
…
In quei momenti pensa alla Germania, ad Amburgo, la sua città.
Gli occhi gli si fanno lucidi e il dolore è evidente, anche se si riprende subito e rimuove con prontezza ogni ricordo tormentoso. E’ diventato un esercizio quotidiano, ormai, nei momenti di sobrietà e coscienza.
Quando se ne era andato precipitosamente, aveva reciso il legame con la città e forse anche con se stesso. In un attimo cambi il corso della tua vita per follia, necessità, istinto di sopravvivenza, bisogno impellente di andarsene.
Stephan possedeva un’ agenzia pubblicitaria e il successo personale, professionale ed economico era arrivato come una botta di vita inarrestabile che dava vertigini e sensazione di possedere il mondo. In quella Germania unificata del 1990, la spinta entusiastica verso un futuro immediato di grandi prospettive e possibilità era il motore che azionava scelte, investimenti, proposte e anche azzardi perché la svolta era reale e il corso della Storia offriva immensi spazi di azione. Da un lato una Germania già collaudata e solida, dall’altra una realtà tedesca tutta da reinventare, ricomporre, ridisegnare, riscoprire e valorizzare. Per Amburgo, in particolare, significava un nuovo rilancio del porto e le ambizioni della città si spingevano a rincorrere Rotterdam e a puntare sul primato navale transoceanico in Europa. E’ una città fiera che ha trovato la forza di risollevarsi dai devastanti bombardamenti a tappeto del 1943 ed ha saputo reagire alla stagnazione e all’immobilismo periodici dei decenni successivi, decollando splendidamente negli anni del post-unificazione.
Uno scenario promettente, per Stephan, che aveva trovato le sue entrature nelle sedi delle testate tedesche più prestigiose e diffuse, prodotte ad Amburgo, cominciando la sua fantastica ascesa con operazioni pubblicitarie di avanguardia, innovative ed eclettiche. Parallelamente a questo, lo stato di benessere si estendeva ai rapporti sentimentali e alla vita sociale, dove l’uomo era una figura di punta per le sue capacità comunicative, la sensibilità culturale, l’estroversione e l’ottimismo che riusciva a trasmettere a chiunque. Aveva sposato Helga Marie, la storica compagna di università con la quale il rapporto era ormai simbiotico: un cenno d’intesa sostituiva grandi discussioni, uno sguardo esprimeva tutto, le parole erano quasi superflue. Non si sa chi dei due fosse al timone di quel legame indistruttibile perché l’equilibrio e la condivisione totale erano evidenti a tutti. Non avevano avuto figli perché non ne erano arrivati o perché erano un po’ essi stessi anche figlio l’uno dell’altra oltre che amici, amanti e collaboratori.
Una vita intensa, pregna di senso, gioia e impegni che ciascuno di loro affrontava con trasporto e passione, finchè non arrivò l’imprevisto, la sferzata, ciò che non avrebbero mai e poi mai messo a bilancio o anche solo osato pensare. L’Alzheimer. Subdola malattia, arriva piano, quasi in sordina, mimetizzandosi con altri sintomi, trucchetti e mascheramenti come se fosse un ladro che entra in punta di piedi in casa per rubarti quanto di più prezioso possiedi: i ricordi, il pensiero cosciente, l’anima.
Quello che in Helga Marie sembrava fosse un periodo di fragilità e stanchezza progressive, divenne certezza inconfutabile davanti alla diagnosi impietosa.
Basta un attimo alle volte, perchè crolli tutto, un piccolo frammento di tempo in cui sei costretto a realizzare velocemente che non ti è rimasto granchè della tua vita, del tuo percorso, della percezione e delle proiezioni che ti eri fatto a proposito della realtà dorata costruita passo dopo passo.
Era come l’ultima mossa nell’edificare un castello di carte, quella che ti tradisce e fa cedere miseramente la struttura, dopo che hai vantato abilità e precisione, fortuna e fermezza.
Stephan aveva pianto davanti alla diagnosi e aveva capito immediatamente che era una condanna senza appello. Erano cominciati gli anni bui, i periodi alterni di lucidità relativa di Helga e oscurità completa, in cui si trovava a comunicare solo con se stesso avendo perso l’interlocutore. A volte si ostinava a pensare che ci fosse uno spiraglio, altre volte cadeva in una sorda disperazione; apatia e iperattività agitata avevano drasticamente preso il posto del suo equilibrato modo di porsi. Rabbia, tenerezza, distacco, indifferenza e dolore viscerale, rifiuto, paura e rassegnazione erano sentimenti che coabitavano in ogni istante della sua giornata che era diventata lunga, senza ore e scansioni. Solo un indifferenziato scorrere del tempo che ti fa perdere i riferimenti precisi.
Le energie che prima orientava nel lavoro e in tutto ciò che lo attirava, il canotaggio, gli eventi culturali, i viaggi e molto altro, erano ora destinate a sua moglie. Ogni istante era diventato un attimo da non perdere e ogni balenìo di coscienza della donna, era da vivere totalmente perché prima o poi sarebbe scomparso anche quello. Si sentiva un assetato in pieno deserto che considera un miracolo ogni singola e piccolissima goccia d’acqua che il destino fa trovare.
Si ritrovò a vivere con un dolore costante che non dava requiem e con il fantasma di quella donna che aveva amato più di se stesso. Niente ricordi, come se tutti quegli anni fossero trascorsi invano; la donna citava qualche episodio di un passato remoto in cui lui non c’era ancora, e poi il vuoto, le stranezze, l’espressione che le deformava a volte i lineamenti e li privava di tutta la loro bellezza d’un tempo. Era un’estranea che lui non riconosceva, una creatura in balìa di sproloqui, sbalzi d’umore, irascibilità e incattivimento quando non era il mutismo e l’isolamento mentale. Spesso, quello che non riusciva a sopportare erano gli occhi, lo sguardo assente e irraggiungibile, senza sfondo. Davanti a quello si sentiva anche lui perso. E il coraggio venne annientato dalla paura del futuro che divenne la sua compagnia costante.
Helga Marie venne affidata ad una casa di soggiorno in cui sarebbe stata accudita e Stephan se ne andò da Amburgo senza voltarsi indietro, dopo aver ceduto l’attività ai soci e garantito alla moglie il sostegno economico di cui ci sarebbe stato tanto bisogno. Lasciò alle spalle gran parte della sua vita e dei suoi sogni realizzati provocando stupore e molti interrogativi tra gli amici e le persone che lo conoscevano come un combattente che non si arrende mai. Era giunto ad un punto di non ritorno e poteva solo affidarsi alla voglia di scomparire, scappare, trovare una tana che lo tenesse al riparo dalla sofferenza più profonda e lenisse almeno un po’ quelle insopportabili lacerazioni dello spirito. Spleen, l’aveva denominato Baudelaire, quel malessere che non dà respiro e ti succhia la linfa vitale fino a diventare angoscia irreversibile. Bisognava andarsene.
Perché l’Italia? gli aveva chiesto qualcuno. Perché c’è stato Goethe, aveva risposto lui in modo del tutto naturale. Difficile credere che sotto i cartoni, dietro le numerose bottiglie vuote e tutto quel peregrinare senza fissa dimora, si celi un uomo romantico di grande cultura. Ha imparato l’italiano ma la tonalità grave, spigolosa e decisa della sua lingua originale rimane.
Sono venuti dalla Germania a cercarlo e una volta trovato, non hanno potuto fare altro che andarsene perché hanno capito che quell’uomo non si sarebbe mai staccato dalla sua strana nuova dimensione.
Barbone, clochard, senzacasa, senzatetto, vagabondo, accattone… è sempre lui, Stephan ‘Il tedesco’: ora ha allentato quella morsa che lo stritolava, camminando senza fretta sulle strade del mondo. Ogni tanto scompare e finalmente qualcuno ha scoperto dove va: raggiunge il mare e se ne sta là sulla riva a guardarlo per ore, bevendo, pensando al Mare del Nord che ha ancora nelle narici e nelle orecchie, accarezzando la sabbia così fine, calda, piacevole.
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Liliana Cerqueni
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