di Marco Contini*
Sabato sera ero a casa, in cucina, quando mia moglie – indicando una macchia sulla credenza che lì per lì ho scambiato per un baffo di Nutella – mi fa: “Guarda un po’ chi c’è”. Inforco gli occhiali e guardo meglio. E’ una zanzara. Viva e vegeta. Il 17 gennaio!
Avendo tolto la zanzariera dal letto a metà ottobre, ho fatto fatica ad apprezzare la profonda ironia di quella visita. Nemmeno tre mesi di requie, e quelle bestiacce sono di nuovo tra noi.
Bella forza, direte. C’è il riscaldamento globale, l’inverno ancora non si è visto, nel pomeriggio il termometro segna stabilmente i 15 gradi, e tu ti stupisci delle zanzare.
Niente di più falso. Non mi stupisco affatto.
Semmai, mi preoccupo. So che il mio punto di vista è particolare, e non pretenderò dunque di incarnare l’interesse generale. Ma da abitante di via Alberto Lollio, vale a dire di quello che in caso di ripristino del Canale Panfilio sarebbe il retrobottega del lungofiume, non posso negare che l’idea di essere letteralmente assediato da quei piccoli, fastidiosissimi vampiri mi garba poco.
Mi spiego. Guardando verso Nord, tra l’alveo principale del fiume Po e il centro città non c’è ostacolo alcuno. Da Pontelagoscuro e Francolino, passando per gli stagni del Parco Urbano, già ora orde di zanzare compiono indisturbate le loro sanguinose scorribande.
Provate quindi a immaginare cosa succederebbe con la riapertura del Panfilio, e con la sua automatica colonizzazione zanzarista. L’intera Addizione Erculea verrebbe completamente accerchiata, come nemmeno i Greci alle Termopili.
Quanto a Corso Ercole d’Este, che Lord Byron elesse a strada più bella d’Europa, diventerebbe l’equivalente dell’Autosole degli insetti. E Palazzo dei Diamanti, con le sue code di turisti sudati, l’equivalente dell’autogrill di Campogalliano.
Ma la verità, ahimé, è che le zanzare sono l’ultimo dei problemi. Perché con un buon arsenale di Autan e zampironi, e con una disinfestazione settimanale – se solo il Comune avesse i soldi per farla – potremmo comunque sopravvivere. Ho qualche dubbio, invece, che riusciremo a reggere all’impatto ambientale.
Spero mi perdonerete il repentino cambio di registro, dall’ironico al serioso.
Il fatto è che Ferrara è circondata dall’acqua. Sporca.
Il Grande Fiume, ai margini settentrionali della città, è una meraviglia. Ma all’altezza di Ferrara ha già raccolto gli scarichi di una delle più straordinarie concentrazioni mondiali di fabbriche tessili, metalmeccaniche e chimiche, senza contare le acque reflue dell’industria alimentare e degli allevamenti dei maiali. Madre Natura è potentissima, lo sappiamo, e assorbe tutto. Ma certo non si può dire che il Po veicoli le “chiare fresche e dolci acque” cantate dal Petrarca.
A sud, il Po di Volano è una cosa immonda. Un acquitrino putrescente dove i pesci morti sono più sani di quelli vivi e in cui il fango è cresciuto a tal punto da far incagliare una pizzeria.
A est ‘ghe gnent, per fortuna.
Mentre a Ovest, dove il Panfilio nasce, abbiamo il Petrolchimico.
Eh già.
Perché dietro all’idea di recuperare l’anima veneziana di Ferrara, non c’è un torrente di montagna, ma l’incrocio tra il Canale di Burana e il Canale Boicelli. Vale a dire, tra le due principali fogne industriali della nostra città.
Essendo tutti noi nati dopo il 1880, finora non ce n’eravamo accorti. Ma l’acqua che ristagna attorno al nostro meraviglioso Castello, da lì viene. Ora capite perché puzza così tanto?
Provate allora a immaginare quella stessa acqua, con dentro pescigatto malati di cancro che danno i loro ultimi colpi di pinna, che sprigiona i suoi miasmi per altri 300 metri in uno dei posti più belli di Ferrara.
Oggi quei giardinetti – bruttini, bisogna ammetterlo – li abbiamo dedicati al 20 e 29 maggio 2012, i giorni del terremoto.
Domani – per coerenza, oltre che in omaggio al nostro meraviglioso dialetto – il nuovo lungofiume dovremmo battezzarlo “Passeggiata dell’Aldamar”.
Ai ragazzi dell’Ariosto e del Roiti, e agli studenti universitari, quel nome piacerebbe un sacco. Sicuramente, con quel nome, ne farebbero un nuovo punto di ritrovo. Sarebbe contento anche il monsignor vescovo, che finalmente vedrebbe sorgere un postribolo alternativo al sagrato della sua santa cattedrale.
Ma forse Ferrara non ci guadagnerebbe. Anzi.
A meno che l’amministrazione non s’impegni a costruire un depuratore, da qualche parte tra la stazione ferroviaria e il palazzo delle Poste.
Sarebbe contenta Hera, che verrebbe chiamata a gestirlo. Brinderebbe il Consorzio Cooperative Costruttori, che vincerebbe l’appalto dei lavori di scavo. E respireremmo noi, i ferraresi.
Come dice il proverbio, “prima pagare moneta, poi vedere cammello”.
Ecco. “Prima costruire depuratore, poi scavare canale”.
* giornalista, vive a Ferrara. Attualmente è responsabile dell’edizione web di Repubblica Bologna, già al Manifesto, a Cnn Italia sede di Atlanta, Repubblica redazione centrale di Roma
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