“Marcel Proust voleva scrivere un romanzo sul nulla e non c’è riuscito. Dovrei riuscirci io?” – si chiede Jep Gambardella in una delle sue estemporanee riflessioni dolcevitiche con vista Colosseo, nonostante il passaggio forse più stupefacente dell’intero film sia la visione di un portone che si apre, quasi magicamente, sotto le mani pallide ma ferme di chi possiede le chiavi dei più bei palazzi di tutta Roma.
No, non paragonabili in alcun modo, gli splendidi giardini delle dimore principesche romane, classiche e perfette, e quelli decadenti, sfasciati, abbandonati delle Duchesse di Ferrara, originariamente Giardino del Duca.
E no, non minimamente pensabile l’angolo di Natura nella città congestionata, o il bosco sull’autostrada che Italo Calvino suggeriva al malinconico e ingenuo Marcovaldo.
‘Giardino’, una porzione di superficie limitata e racchiusa, ripescando la radice indogermanica (dalla parola gart, ‘circondare’). Due porte che lo aprono su via Garibaldi e su Piazzetta Castello, dense di passi che si susseguono veloci e indifferenti oggi come ieri. Fuori da quelle due porte il mondo di oggi; dentro, silenzioso, lugubre, immobile, fermo immagine di tronchi e foglie e palazzi dai muri scrostati, intatti in un passato rovinato, non certo rovinoso. Quello di una vita fa, impossibile a ripetersi ma ancora presente, quando il proprietario di quei passi butta l’occhio dentro e può colpirlo quell’istinto di un esasperato Romanticismo carico di languore e sonnolenza.
Istinto non giustificabile razionalmente, da chi come me completamente digiuno di architettura, numeri e ristrutturazioni; se non con la parte destra del cervello, quella dedita all’arte, all’immaginazione, alla poesia.
Se tuttavia di “schifo” si vuol parlare, allora parliamo del brutto e scusiamolo, nei suoi recessi più innominabili. Umberto Eco convince entusiasticamente e storicamente nella sua “Storia della bruttezza”, Iginio Ugo Tarchetti rende Giorgio innamorato folle della ripugnante Fosca, dalla quale l’aitante militare riesce a staccarsi solo con la morte di lei. Buttati a testa bassa nel subcosciente, nella contemplazione statica di quell’angolo voluto nell’ambito delle trasformazioni edilizie promosse da Ercole I d’Este che fecero assumere al Palazzo Ducale l’assetto planimetrico attuale.
E, se è vero che le cose devono cambiare per poter restare le stesse, come scriveva Tomasi di Lampedusa, allora che la parola ‘ripristino’ entri nel Giardino delle Duchesse; purché ci entri a piccoli passi, così come a piccoli passi la nobiltà lascia il passo alla borghesia del neonato Regno d’Italia. Come la bambina del “Giardino segreto” di Francis Burnett che, con infinita e amorevole cura, riporta fiori e natura in un desolato spazio scevro d’amore.
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Giorgia Pizzirani
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