Solo l’educazione ci può salvare: 10 note per educare alla nonviolenza nel tempo della paura
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A margine di “FE sta in Pace”, la bella e coloratissima manifestazione che ha animato piazza Municipale il 21 e 22 settembre scorso, pubblichiamo un Decalogo per introdurre nelle scuole l’educazione alla nonviolenza e alla pace. (La Redazione)
di Pasquale Pugliese
All’inizio di questo anno scolastico, lo scorso 4 settembre, sono stato invitato dall’Istituto comprensivo 10 di Modena, insieme ad altri formatori, ad una giornata di formazione sull’educazione alla pace rivolta a tutti gli insegnanti. Queste sono le note con le quali ho preparato il mio intervento. Forse può essere non del tutto inutile renderle pubbliche e diffonderle.
Il panorama attuale
Si vis pacem para bellum, se vuoi la pace prepara la guerra, è il vecchio motto latino che ha accompagnato millenni di storia dell’umanità. Storia punteggiata da guerre, da centinaia di milioni di morti, da enormi sprechi di risorse sottratte all’educazione, all’istruzione, alla sanità, al welfare: nel solo 2017 la spesa pubblica militare mondiale è stata 1.739 miliardi di dollari, in crescita costante. Se si fosse trattato di un enorme esperimento scientifico per validare l’ipotesi – per quanto intuitivamente assurda – che per fare la pace bisogna preparare il suo contrario, la guerra, sarebbe stata abbandonata da tempo. Invece su questa ipotesi – spacciata per certezza – si basa l’organizzazione attuale della società.
Anche della nostra: il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa per spesa pubblica per l’istruzione e la cultura è invece ai primi per spesa pubblica militare. E non c’è nessun comparto industriale che possa vantare profitti crescenti come quello delle armi, soprattutto nell’export. Come se non bastasse, il governo vuole incrementare anche il mercato interno con leggi che facilitano il possesso e l’uso delle armi, aprendo anche la società italiana ad uno scenario come quello statunitense, dove decine di scuole – ogni anno – sono teatro di stragi da armi da fuoco
La situazione è dunque gravissima su diversi piani: Papa Francesco ha più volte definito la situazione attuale come “terza guerra mondiale diffusa”; gli scienziati atomici nel loro Bollettino annuale continuano a riportare sempre più vicino alla mezzanotte nucleare l’orologio dell’apocalisse (ora a 2 minuti, come nel 1953); le guerre che devastano il pianeta – e che fanno la ricchezza dei produttori di armi – generano migrazioni di profughi che si aggiungono ai migranti che fuggono da situazioni di povertà e di devastazione ambientale; questo esodo diventa il pretesto per promuovere politiche fondate sulla paura dell’alieno e sull’odio nei confronti di chi è differente da noi. E la paura è il pretesto per costruire nuovi muri in tutta Europa, dopo che nell”89 era stato abbattuto quello di Berlino. E per nuove legislazioni razziste.
La violenza culturale
La violenza, spiega Joan Galtung, ha diversi livelli: quello della violenza palese agìta direttamente: la guerra, il terrorismo, l’omicidio; quello della violenza delle strutture economiche e sociali che la favoriscono, come la produzione di armi, gli eserciti, i modelli di sviluppo che devastano l’ambiente e precarizzano le persone, le mafie…; la violenza culturale che sta a fondo di tutto ciò e giustifica e legittima le altre forme di violenza: sono le narrazioni che apprendiamo fin da piccoli secondo le quali i conflitti si risolvono con la violenza ed il fine giustifica i mezzi. Se vuoi la pace prepara la guerra, appunto.
La violenza culturale è quella più difficile da sdradicare perché rappresenta un “implicito culturale”: ciò che è dato per scontato. E’ quello che apprendiamo quando studiamo la storia come un susseguirsi di vicende di violenza – lo spargimento del sangue – mentre nessuno ci racconta i conflitti risolti senza violenza: “il sangue risparmiato”, come lo chiama efficacemente Anna Bravo. Quando nei corsi di formazione ai volontari in servizio civile sul tema della difesa non armata e nonviolenta racconto della resistenza non armata dei danesi sotto l’occupazione nazista che ha salvato – unico caso in Europa – il 98% degli ebrei residenti e come questa abbia portato a modificare anche l’atteggiamento degli occupanti, risparmiando la popolazione dalle rappresaglie, come spiega Hannah Arendt ne “La banalità del male”, i ragazzi mi chiedono perché queste cose non si insegnino a scuola.
Eccoci al punto: ormai davvero solo l’educazione ci può salvare. Si tratta di ribaltare il detto latino e di sostituirlo con uno nuovo: se vuoi la pace prepara la pace. Che cosa vuol dire preparare la pace su un piano educativo? Significa decostruire e delegittimare la violenza culturale e promuovere una narrazione di senso ed una pratica di relazioni radicalmente alternative: quelle della nonviolenza. Che non è solo l’assenza di violenza – che ne è la condizione necessaria ma non sufficiente – ma la costruzione di una prospettiva differente di approccio alla realtà ed alle relazioni. “Poiché le guerre nascono nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono essere poste le difese della pace” è scritto efficacemente nel preambolo della Carta dell’UNESCO.
Dieci note per educare alla nonviolenza
Allora vediamo alcune note su elementi che mi paiono necessari a un’educazione fondata sulla nonviolenza:
1. educare alla complessità: viviamo in un sistema complesso ed interconnesso, rispetto al quale – come ha insegnato Edgar Morin – non ci sono risposte e soluzioni semplici, se non quelle fondate sulla violenza. Dunque non sono soluzioni. La nonviolenza è un modo adeguato per stare al mondo nel tempo della complessità;
2. educare al pensiero critico: la realtà e la società non vanno accettate così come sono, ma possono essere cambiate. La violenza non è un destino dell’umanità ma una sua scelta culturale che può essere modificata. Così si conclude la Dichiarazione di Siviglia sulla violenza (UNESCO): “Concludiamo affermando che la biologia non condanna l’umanità alla guerra. Così come “le guerre cominciano nella mente degli esseri umani”, anche la pace comincia nella nostra mente. La stessa specie che ha inventato la guerra può inventare la pace. In questo compito ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilità”;
3. educare alla responsabilità, che è un elemento ulteriore rispetto all’educazione alla legalità. Ossia educare al rispetto della legge finché la legge è giusta ma all’obiezione di coscienza ed alla disobbedienza civile se la legge è sbagliata. Per preparare una legge più giusta. E’ il principio di Antigone, all’origine della civiltà, che don Milani ha ribadito con la formula “l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”;
4. educare all’empowerment, alla gestione positiva ed assertiva del potere che ciascuno possiede. Il potere non come sostantivo singolare maschile, ma come declinazione del verbo potere: io posso, tu puoi, egli può, noi possiamo, voi potete, loro possono. “Il potere di tutti” lo definisce Aldo Capitini;
5. educare a considerare e trattare l’altro sempre un fine e mai un mezzo, come ha insegnato Immanuel Kant, dunque educare al rispetto per l’altro, della sua vita e della sua dignità, indipendentemente dalla provenienza, dalla religione, dal colore della pelle, e da qualsiasi ulteriore specificazione;
6. educare al disarmo, che è disarmo culturale prima che militare. Educhiamo ad uscire dall’egocentrismo, dal nazionalismo, dal “occidentecentrismo”, dall’antropocentrismo… Educhiamo al decentramento cognitivo, a guardarci dal punto di vista degli altri, all’ascolto attivo. Che non prevede le armi
7. educare all’umanizzazione dell’avversario: “la nonviolenza è appassionamento all’esistenza, alla libertà ed allo sviluppo di ogni essere” soleva ripetere Aldo Capitini. Dunque non esistono nemici, che vengono de-umanizzati, semmai avversari che vanno umanizzati;
8. educare a concentrarsi su mezzi che siano coerenti con i fini, perché come dice Gandhi “il mezzo sta al fine come il seme sta all’albero, tra i due c’è lo stesso inviolabile legame che c’è tra il seme e l’albero”. Solo i mezzi che usiamo sono nella nostra disponibilità, non i fini;
9. educare alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, ossia educare a gestire i conflitti – anche interpersonali – con il metodo nonviolento, in modo che da potenziali distruttori delle relazioni – e principio delle guerre – essi siano occasione di relazioni più intense e profonde;
10. educare personalità nonviolente, come invita a fare Giuliano Pontara: “educare al coraggio, all’impegno, alla fiducia negli altri, alla tenacia, alla resilienza, all’empatia, alla creatività, alla mitezza”: in una parola alla capacità di sconfiggere la paura.
Si tratta di competenze trasversali, che hanno a che fare tanto con gli apprendimenti formali quanto con gli apprendimenti non formali e informali. Elementi di nonviolenza che, per essere appresi davvero, non devono solo essere raccontati, ma praticati nella quotidianità dell’organizzazione scolastica e nella qualità delle relazioni che si intessono al suo interno, oltre che ricercati nei contenuti delle diverse discipline curricolari. Insomma, la scuola e tutti i contesti formativi – cioè le persone che le abitano – non devono solo educare a questi contenuti, ma devono educarsi ad essi e, da questi, lasciarsi trasformare.
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