PUNTO DI VISTA
Cittadini o consumatori: sei riflessioni sulla crescita del Pil e l’aumento inesorabile dei bisogni
Tempo di lettura: 5 minuti
Se si osserva la società dal punto di vista dei bisogni, liberi per quanto possibile dai preconcetti del pensiero unico economico che quotidianamente ci assedia con PIL, Spread, Dow-Jones, FTSE e simili amenità, il nostro sguardo si apre su prospettive e paesaggi molto diversi da quelli che siamo abituati a vedere solitamente. Liberati un poco dal pregiudizio, da molti cliché e fors’anche da qualche strisciante ideologia, possiamo perfino immaginare che il fine della società nel suo insieme possa essere espresso con un linguaggio e con criteri differenti da quello della crescita, della riduzione del debito pubblico, dell’aumento dell’occupazione.
Possiamo ad esempio ipotizzare che il fine della società non possa e non debba essere disgiunto dalla sua capacità di risolvere i bisogni dei suoi membri, possiamo immaginare che esso non possa essere pensato come completamente indipendente dal più vasto sistema ecologico dal quale le società sono emerse e traggono sostentamento, possiamo vedere la gabbia d’acciaio che Max Weber ci ha insegnato a riconoscere e mettere in dubbio la presunta certezza di vivere in un mondo disincantato, indifferente alla sorte degli umani.
Siamo tuttavia così immersi nel brodo dell’informazione mainstream che un simile passaggio (mettere tra parentesi l’ideologia economica imperante) risulta essere molto difficile, ed è percepito dai più come un esercizio poco utile, se non completamente insensato. Cosa possiamo scoprire se osserviamo il nostro mondo da questa prospettiva particolare e, nell’osservarlo, immaginiamo di farlo assumendo diversi punti vista che possano essere rappresentativi di differenti posizioni dentro la struttura sociale?
1. Lo spirito del consumismo
All’alba del pensiero diventato oggi egemone (siamo nel 1955, l’epoca dipinta nei suoi aspetti positivi dalla situation comedy Happy Days), un economista allora molto autorevole Victor Lebow, membro del gruppo di analisti economici del Presidente degli USA Eisenhower, se ne uscì con questo asserto, che è la chiave di volta dell’intero edificio della “nostra” società del consumo:
«La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, a trasformare l’acquisto e l’uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo. Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e sostituiti ad un ritmo sempre maggiore».
Questa prospettiva, nella quale viviamo oggi completamente immersi come il pesce nell’acqua, al punto di non sapere neppure più cosa si intendesse (e si intenda) con il termine consumismo, pone la nozione stessa di bisogno su una base che ne determina in buona sostanza la dissoluzione. In un contesto di sovra-produzione, tutte le vecchie nozioni che si fondavano sulla penuria di beni e i rischi derivanti da eventi esterni imponderabili, sull’esigenza di mantenere una centratura rispetto alle esigenze basilari dell’esistere, vengono messe in discussione e presto cadono nell’obsolescenza; di fatto parlare di bisogno, almeno al livello di politica economica, diventa inutile poiché la prospettiva più importante, se non unica, diventa quella del consumo.
In che modo dunque, all’interno di questa prospettiva, le nostre società rispondono al bisogno? Superata la soglia della produzione di una massa di beni statisticamente sufficiente a coprire i bisogni primari di sussistenza, sostanzialmente attraverso 7 meccanismi fondamentali il cui scopo è appunto quello di aumentare i consumi:
- la manipolazione sistematica dei sistemi di desiderio attraverso l’educazione al consumo che inizia fin dai primi anni di vita (“consumo quindi sono”);
- l’obsolescenza programmata delle merci prodotte (i beni devono durare poco per essere sostituiti spesso) che si coniuga con il fascino dello sviluppo tecnologico;
- la moda con tutte le sue implicazioni (ciò che ha ancora piena funzione d’uso deve essere rigettato in quanto non socialmente adatto);
- lo specialismo esasperato e diffuso, dove il ruolo dell’esperto porta allo svuotamento sistematico delle capacità che possono rendere autonoma la persona e alla loro sostituzione con prestazioni a pagamento (“non so fare nulla che esca dal mio ambito ma so a chi rivolgermi”);
- la sostituzione di attività prima svolte informalmente nelle reti comunitarie e familiari, con prestazioni specialistiche a pagamento;
- la credenza acritica che la crescita del PIL sia l’unica via ed indispensabile per far crescere la torta da spartire, creare lavoro e quindi far entrare sempre nuovi consumatori nel sistema (è necessario crescere indefinitamente);
- l’estensione forzosa del modello ritenuto (unico) portatore di benessere in tutto il pianeta e, con esso, dello stile di vita occidentale, ovviamente presentato come (unico) portatore di libertà e di democrazia.
2. Siamo ancora in grado di riconoscere i nostri bisogni?
Lasciamo i suggerimenti del consigliere del presidente degli anni ’50 e proviamo ora a recuperare una sana prospettiva soggettiva, cambiamo punto di vista e consideriamo il tema del bisogno (nella duplice accezione di carenza e di motivazione all’azione) secondo ciò che percepiamo e sentiamo come persone, come singoli esseri sociali dotati di corpo, di emozioni e di pensieri. Con un impegno che ci è stato insegnato dalla fenomenologia, cerchiamo di mettere tra parentesi il nostro ruolo sociale e tentiamo di individuare in cosa consistono i nostri bisogni: ne scaturirà un elenco simile al seguente, proposto da un altro economista, Manfred Max-Neef (per non citare sempre il citatissimo Maslow), un personaggio decisamente diverso da quello citato in precedenza:
- Sopravvivenza
- Protezione
- Affetto
- Partecipazione
- Ozio
- Creazione
- Identità
- Libertà
- Spiritualità
Osserviamo questo elenco, liberi per quanto possibile da soluzioni precotte e preconfezionate, affrontiamolo in modo creativo, e chiediamoci in quali modi possa essere affrontato da singoli soggetti e in quali modi concretamente lo affrontiamo nella nostra vita. Da questo punto di vista, chiamati in causa direttamente, siamo decisamente più propensi a credere che l’economia debba servire alle persone, piuttosto che le persone servire all’economia.
3. Il marketing ovvero l’arte di vendere e costruire nuovi bisogni
In che modo la nostra società tende attualmente ad interpretare ed onorare tutti ed ognuno di questi bisogni? Secondo l’ipotesi mainstream o neoliberista, proprio e solo attraverso i mercati, la crescita forzosa del PIL e la conseguente corsa sfrenata al consumo (ben espressa dalla famosa PublicitàProgresso (!) “Fai girare l’economia”). Questa visione è esemplarmente sintetizzata in alcuni detti recentissimi (verbatim) che girano nel mondo (affascinante) del marketing, il sottosistema economico deputato per antonomasia a far crescere le vendite (e i consumi) che, sul tema dei bisogni, ha uno sguardo tanto originale quanto interessato:
- “la pubblicità non è più l’anima del commercio, ma il commercio dell’anima”;
- “senza sogno non c’è bisogno”;
- “il consumatore compra emozioni, non materia: un marchio senza emozione è solo merce”;
- “siamo ciò che compriamo”.
Considerati a prescindere dal loro appeal creativo ed attuale, questi motti esprimono perfettamente l’idea di un consumismo ormai orientato a dare risposte proprio a quelle che sembrerebbero essere le aspirazioni più alte e “spirituali” dell’uomo (il modello Marketing 3.0 dal prodotto, al cliente all’anima, discusso da P. Kotler nell’omonimo libro).
1. CONTINUA
Sostieni periscopio!
Bruno Vigilio Turra
I commenti sono chiusi.
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it