Il fatto è noto: l’Università Bocconi ha annullato un corso su Dostoevskij tenuto da Paolo Nori [qui] (peraltro gratuito) in omaggio all’Ucraina invasa da Putin.
Dopo l’incredulità del docente, l’università ha ritirato la sua decisione demenziale. Un piccolo segno, ma è noto che è proprio dai ‘piccoli segni’ che si coglie il futuro che ci aspetta (se non si reagisce). Confondere un autocrate come Putin con il suo popolo e la sua cultura (considerata patrimonio dell’umanità), è un ‘segno dei tempi’: ci si deve tutti accodare al pensiero unico di totale condanna di Putin (e fin qui va bene) senza discutere sulle nostre (europee, per non dire Usa) responsabilità.
Gli italiani hanno già vissuto durante il fascismo questi “piccoli passi” da pusillanimi che volentieri assecondano la vulgata dominante diventando più “prussiani del re di Prussia”, facendo cioè quei piccoli gesti che piacciono a quello che si reputa in quel momento “lo spirito dominante del tempo”. Discriminare, odiare, consigliare amichevolmente di non esporsi, un ammiccare complice, rigettare qualsiasi azione che possa comprometterti, una predisposizione millenaria al conformismo, il terrore di ogni complessità, soprattutto quella del pensiero, dividere tra buoni (noi) e cattivi (gli altri), soprattutto il rifugio della rassicurante appartenenza al nostro gruppo che ci scalda e protegge.
Colpire il pensare libero che è alla base della democrazia. Essere vissuti 75 anni in una democrazia non ci esenta da questi istinti e quindi se “soffia il vento contro la Russia di Putin” tutto ciò che è russo va demonizzato. La storia è colma di questi comportamenti opportunistici, com’è avvenuto durante il nazi-fascismo (e non solo). I partigiani che si rivoltarono furono solo il 3% della popolazione e nel ‘43 quando Mussolini era già stato destituito dal Gran Consiglio a Ferrara (per esempio) c’era una fila per andarsi a iscrivere al partito fascista che andava dalla sede (quasi alla fine di Viale Cavour) fino al Castello.
Fascisti diventati in molti casi comunisti, socialisti, democristiani, liberali nel dopoguerra ed è per questo che fu bruciato il Tribunale (conteneva compromettenti documenti). La condanna senza appello alla guerra e a Putin non ci deve esimere da un dialogo civile (da un libero pensiero) che ci faccia uscire da questa drammatica situazione in un mondo migliore (e più pacifico). Oggi le tifoserie sono dannose. La guerra non deve nasconderci che siamo dentro un capitalismo che crea crescenti disuguaglianze, disastri ambientali, che negli ultimi 20 anni ha impoverito il 90% di europei e americani e proprio di questo parla Dostoevskij che passò 4 anni in Siberia e 2 anni di servizio militare per aver contestato il regime zarista e in Delitto e Castigo insorge contro la pretesa dei sostenitori del liberalismo di rendere l’umanità calcolabile. Anche il Cristo scelse di non essere contato dal primo censimento dei Romani in Palestina, fuggendo in Egitto con la famiglia. Caifa nel condannare Gesù dirà “è meglio che muoia uno piuttosto che tutto il popolo”. Durante la pandemia e ora con la guerra (segnalo che in questo momento ci sono 30 guerre nel mondo) c’è chi vorrebbe creare un pensiero unico (senza se e senza ma), ma ciò significa minare l’individuo (e il suo libero pensare, amare, volere) che rappresenta l’essenza dell’umanità.
Il pensiero di Dostoevskij è molto critico coi meccanismi economici e il Raskolnikov di Delitto e castigo illustra come non credesse alla supposta razionalità dell’Homo economicus, su cui si basano le teorie dell’economia capitalista moderna (non tutte). Scrive Dostoevskij “L’uomo non persegue i propri interessi, ma i propri fantasmi”. Per questo motivo, ma forse anche per i tanti rovesci economici patiti, il grande scrittore russo “aborre il capitalismo, che ha osservato i danni che ha prodotto a Londra e che ora sta facendo a San Pietroburgo” la rivoluzione industriale nella quale Delitto e castigo è ambientato. Dostoevskij esprime nel romanzo il suo disprezzo per la borghesia del denaro tramite il personaggio dell’avvocato Lužin, ricco ma meschino e moralmente depravato, che offre una sua parodistica e interessata versione della “mano invisibile” di Adam Smith: “Non lavorando che per me stesso lavoro, di fatto, per tutti”. Anche la formalizzazione matematica dell’economia portata avanti da altri economisti classici anglosassoni, da David Ricardo in poi, era per Dostoevskij un’aberrazione.
Formalizzazioni che ancora oggi sono ben presenti nella cultura degli economisti neo liberisti che sono molto “efficienti” ma iniqui, direbbe Dostoevskij, per il quale “non c’è niente di più disumano della miseria delle grandi città moderne”. Il suo sguardo sulla povertà è vicino a quello di Charles Peguy (scrittore e saggista francese di poco posteriore a Dostoevskij, autore di Il denaro), che stabiliva una distinzione tra “l’inferno” della miseria e la povertà, la quale non solo preserva la dignità dell’uomo ma gli assicura anche (almeno fino a prima della rivoluzione industriale) una forma di “sicurezza”. “Nella povertà infatti si può conservare ancora la nobiltà dei sentimenti innati, mentre nell’indigenza nessuno potrebbe farlo”, afferma Dostoevskij. Ma è nella critica all’Homo economicus richiamata all’inizio che sta, forse, l’elemento di maggiore modernità di Dostoevskij. Ricordiamo infatti tre premi Nobel per l’economia, Herbert Simon (1978), Daniel Kahneman (2002) e Richard Thaler (2017), che hanno criticato, sulla base della psicologia comportamentale, quel modello di presunta razionalità nelle scelte economiche, spiegando come queste ultime siano viziate, sia nei consumatori che negli investitori, da pregiudizi cognitivi. Uno che ha scritto Il giocatore guardandosi in pratica allo specchio, non poteva non averlo capito.
Attaccare Dostoevskij non significa attaccare la Russia ma il nostro “sistema” che rende il 90% dei cittadini (europei e americani inclusi) sempre più poveri, mentre arricchisce in modo esponenziale una piccola fascia (sfruttando paradisi fiscali e riduzione delle imposte), che non genera lavoro (abbiamo lo stesso livello di occupati del 1960), dove un quarto dei giovani né studia né lavora, sempre più separati dalla Natura e dalle altre persone, più dipendenti dal digitale e dalle grandi multinazionali. Un “sistema” che mina le stesse democrazie (in grande ritirata nel mondo da 30 anni). Bisogna ritornare a pensare con la nostra testa, smettere di barattare libertà nostra (e degli altri) con consumismo e falso benessere, una nuova Europa federale, fondata su pace e autonomia (anche difensiva) dalla Nato e dagli Usa, diventare un polo mondiale di democrazia e di “buona vita” per tutti (non solo per i ricchi) attraente per i cittadini russi, cinesi, americani. Le dittature lavorano su odio e guerra perché sanno che dividono (divide et impera), la cultura e l’arte uniscono e sono il punto di partenza per la pace.
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Andrea Gandini
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