Sfruttamento, precariato e discriminazione: storie di lavoratori ferraresi
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Uno spettacolo per andare, valigia in mano, alla ricerca dei diritti del e sul lavoro, sempre più difficili da trovare, tra precariato, sfruttamento e discriminazione, per italiani e stranieri. È “Il lavoro non ha colore”, pièce ideata e organizzata da Cgil Ferrara, che si è tenuta venerdì pomeriggio nello spazio teatrale di Ferrara Off in via Alfonso I d’Este, nell’ambito della quattordicesima edizione del Festival dei diritti, intitolata “Percorsi di pace tra diritti e integrazione”.
Lavoratrici e lavoratori delle realtà produttive ferraresi, italiani e stranieri, cosiddetti ‘migranti economici’ o profughi di guerra, hanno raccontato le proprie vicissitudini, davanti al pubblico, grazie all’adattamento dei testi di Sabrina Bordin, che ha curato anche la regia dello spettacolo. Per questa loro prima esperienza teatrale i sette lavoratori sono stati affiancati dagli attori Marco Trippa e Catia Gianisella, che ha letto alcuni brani di Valeria Slaven sulle esperienze delle badanti dell’Est nel nostro paese, e le loro testimonianze sono state intervallate dalle musiche dei Fev, Luca Taddia alla voce e chitarra e Luca Caselli alla chitarra.
C’è la maestra, che si vede improvvisamente togliere le garanzie contrattuali, ma deve nascondere rabbia e frustrazione perché “ci sono loro, i bambini”, che non si devono accorgere delle difficoltà del mondo adulto, non ancora: proprio i piccoli danno la forza a lei e alle colleghe per andare avanti e alla fine vincere la propria battaglia. C’è la oss proveniente dal Mali e la ferraresissima donna delle pulizie che lavora alla base dell’aeronautica e quella con un contratto a ore che viene dal Camerun. Ci racconta che per lei in fondo il difficile non è trovarlo un lavoro ma tenerselo: la prima volta viene licenziata perché “distrae gli uomini dal posto di lavoro”, è troppo carina, le altre perché non cede alle insistenti ‘attenzioni’ dei suoi datori di lavoro. “Possibile che una donna deve essere costretta a scegliere fra il lavoro e la propria dignità?”, si chiede.
Poi c’è il “profugo non rifugiato”, arrivato a dicembre dall’Afghanistan: trenta ore aggrappato sotto un camion dalla Grecia all’Italia, fino ad Altedo dove lo hanno scoperto: “non ho mai voluto essere un peso per questo paese, volevo lavorare e mandare soldi in Pakistan” dove ha lasciato il resto della famiglia, lui era il figlio maggiore, toccava a lui partire. Tornato in Italia dopo un viaggio lungo e pericoloso per andare a trovare la madre gravemente malata, nonostante avesse accettato stage e tirocini, e avesse concordato l’assenza con il proprio datore di lavoro, scopre che lo hanno sostituito, che per lui il lavoro non c’è più.
Infine le colleghe lavoratrici del settore agricolo: una italiana, l’altra rumena, entrambe rappresentanti sindacali, per difendere diritti e lottare per la propria dignità di lavoratrici nonostante le diffidenze reciproche che a volte covano sotto la superficie.
Brandelli di vite reali che ci impartiscono un’amara lezione: “di dignità ti deve bastare quella che hai dentro, perché nessuno te la riconosce”, quando sei costretto a lavorare a qualsiasi costo perché l’alternativa è non riuscire a dare da mangiare ai tuoi figli, non mandare denaro alla famiglia lontana, essere licenziato e sostituito da chi ha ancora meno da perdere di te. E ancora più desolante è che quasi tutti lavorano per realtà che si definiscono ‘cooperative’, ma che a quanto pare della cooperazione non hanno capito nulla.
Ritrovare il valore del lavoro come strumento di emancipazione e di cittadinanza, riconoscere la dignità di ciascuno lavoratore, perché “il lavoro povero e sfruttato non ha colore, né etnia”, come ha sottolineato in apertura Valentina Ziosi della segreteria confederale della Camera del Lavoro di Ferrara, ma nemmeno i diritti ne hanno, o forse ne hanno tanti, uno per ciascun viso: tutti insieme, un’unica bandiera arcobaleno come quella della pace.
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Federica Pezzoli
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