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È sempre azzardato cercare di ricostruire il carattere di un popolo dalle parole che può o decide di parlare, ma si può fare un’eccezione per una parola d’eccezione: ‘serendipity’ spesso resa goffamente come “serendipità” una parola così poco comune da venire marcata come errore dal correttore ortografico del mio programma di scrittura proprio in questo momento.

Eppure ‘serendipity’ è una parola deliziosa della lingua inglese, coniata a Venezia nel 1754 dallo scrittore inglese Horace Walpole sulla base di una fiaba italiana intitolata “I tre principi di Serendip.” In questa fiaba c’erano tre eroi che facevano continue nuove belle scoperte, grazie al caso e alla sagacia, di cose di cui non andavano in cerca. Questa strana parola entrò e si diffuse in inglese come parola d’autore per designare la casualità di fare casualmente scoperte felici e inattese, insomma di trovare qualcosa di bello quando meno te lo saresti aspettato.
Gli esempi abbondano nella storia: la scoperta della penicillina, la scoperta dell’Lsd così come la scoperta dell’America (anche se quest’ultima fu purtroppo assai poca propizia per i “nativi” ma assai redditizia per i “conquistadores”).

Da questo punto di vista, il concetto di “serendipity” è utilizzato attualmente dai circoli d’avanguardia (come è stato discusso questa sera ad una tavola rotonda al berlinese Ici Berlin con Antke Engel, Jule Jakob Govrin e Christoph Holzhey) per indicare un’effettiva ma non programmata reazione ad una forma di neoliberalismo che dice di sé di essere l’unica alternativa possibile: ovvero l’unica via. Per cui il concetto di ‘serendipity’ individuerebbe delle risorse politiche (o se vogliamo, alla Foucault, risorse “biopolitiche”) al neoliberalismo, di fatto ricalcando le forme dello spontaneismo operaista alla Toni Negri, controverso autore che attualmente va di nuovo per la maggiore tra gli studiosi dalla memoria corta o dal folto pelo sullo stomaco.
Tra l’altro, qualcuno, trascinato da una biechissima misoginia, si spinse a descrivere la serendipity in termini quasi boccacceschi: “la serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino.” In effetti si tratta di una definizione di serendipity che, probabilmente non casualmente, ha spinto anche verso un rilancio del sessantottino concetto di “poliamore”: ovvero la rinuncia ad una monolitica e patriarcale monogamia e l’accettazione del fatto che ogni rapporto d’amore non può che essere aperto all’eventualità non solo della catastrofe ma anche della serendipity per cui anche senza cercare nulla si potrebbe finire per trovare un altro partner che non è necessariamente migliore bensì almeno buono quanto l’altro.

Non si può notare senza una certa malinconia che la parola “serendipity”, curiosamente nata dal desiderio di uno scrittore nel Settecento, si sia diffusa a macchia d’olio nel vocabolario anglosassone, mentre il suo omologo italiano ‘serendipità’ è rimasto poco più che una rarità. Da una breve consultazione di Google risulta che il termine inglese “serendipity” è enormemente più diffuso del suo spiantato cugino italiano “serendipità”, infatti “serendipity” giganteggia con 1.700.000 occorrenze mentre il mestissimo “serendipità” deve accontentarsi di misere 8.000 occorrenze.
C’è da chiedersi se questa disparità lessicale non sia, come probabilmente è, il riflesso della natura anglocentrica della rete bensì l’indice del carattere di un popolo, quello italiano, probabilmente già da tempo troppo avvilito per sperare in una scoperta felice e inaspettata.

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Federico Dal Bo

È giornalista pubblicista e traduttore, dottore di ricerca in Ebraistica, dottore di ricerca in Scienza della traduzione, residente a Berlino


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