Il libro “Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle”, degli economisti Maurizio Franzini e Mario Pianta (Laterza, 2016), presentato recentemente alla Biblioteca Ariostea di Ferrara per iniziativa di Istituto Gramsci, Istituto di Storia contemporanea e Spi-Cgil, richiama l’attenzione su un problema certamente non nuovo, ma sempre più grave. È sconcertante sapere che oggi la ricchezza posseduta dall’1 per cento più ricco della popolazione mondiale è uguale a quella del restante 99% dell’umanità (Oxfam, 2015), ma questa è solo la dimostrazione più clamorosa di una palese ingiustizia.
I fattori sono tanti, come dimostrano con dovizia di esempi Franzini e Pianta: da quelli macroeconomici – i rapporti tra gli Stati – a quelli, per citare Gramsci, molecolari, che riguardano i rapporti tra le persone. Fattori riassumibili in quattro grandi cause : il crescente potere del capitale sul lavoro, l’affermarsi di un capitalismo oligarchico; l’individualizzazione nei rapporti di lavoro e la concorrenza tra lavoratori; l’arretramento della politica sul fronte della riduzione delle disuguaglianze.
Oggi un mare di dati smentisce l’assunto del pensiero dominante secondo cui la disuguaglianza economica è la condizione necessaria per raggiungere gli obiettivi della crescita e dell’efficienza di mercato. Cito dal libro di Franzini e Pianta: l’Ocse, nel 2015, ha scritto in un suo rapporto che “la crescente disuguaglianza è un male per la crescita a lungo termine”, raccomandando i governi a comportarsi di conseguenza. Il Fondo monetario internazionale, in un recente studio, ripropone questa tesi, affermando che “la redistribuzione (della ricchezza, ndr) appare generalmente benigna in termini di impatto sulla crescita”.
In poche parole, se una massa enorme di persone non ha di che vivere o vive male, quale mercato può mai essere alimentato? Quale produzione umana potrà mai essere incentivata? E, se ci spostassimo ai rapporti tra gli Stati, se una notevole parte di essi è economicamente sfavorita negli scambi, quale crescita può mai essere conseguita? Dunque, la diseguaglianza è un potente fattore di destabilizzazione economica, sociale, culturale. Sì, perché le sue conseguenze investono tutta intera la nostra vita. Se sei povero, mangi male, non puoi istruirti, né curarti, non puoi aspirare ad avere una famiglia, né una casa ed un lavoro dignitosi: sei in balia dei flutti dell’esistenza, di regole dettate da altri, in una società dove prosperano pochi privilegiati. Questo è un primo, fondamentale punto fermo ideale per chiunque non tolleri la disuguaglianza. E ciò richiama alla mente quale soggetto possa oggi efficacemente contrastare lo stato di cose esistente e battersi per ottenere cambiamenti, anche parziali. Senza farsi illusioni, poiché parliamo di una sfida mondiale, che la finanziarizzazione del capitale ha reso assai difficile per chi vuole sedersi dalla parte del torto, per dirla con Brecht. Penso che ridurre al massimo possibile la disuguaglianza possa e debba ancor più, nei suoi vari aspetti, diventare una permanente rivendicazione di movimenti e di parti importanti della società.
Non parlo, per stare in Italia, dei partiti politici che stanno dominando la scena: li vedo incapaci di assumere questa responsabilità. Parlo invece, e per esempio, del sindacato (in particolare della Cgil) che a livello nazionale (ed europeo) dovrebbe fare della costante lotta alla disuguaglianza e della forte richiesta di politiche economiche riparatrici nei confronti della parte più debole della società uno dei baluardi della propria azione, ora e per i prossimi anni.
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Franco Stefani
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