Senilità, vecchiaia, anzianità, età matura, terza età, sono tutti termini che assumono una valenza specifica a seconda del senso che diamo a quella fase della vita che costituisce un approdo dopo numerose esperienze, eventi, gioie e sofferenze, tentativi, successi, fallimenti, errori e intuizioni vincenti, innumerevoli relazioni con l’esterno, azioni coraggiose e fughe. Un mondo alle spalle che ci descrive, lascia capire chi siamo e dove abbiamo camminato, cosa abbiamo lasciato passo dopo passo e ciò che vogliamo ancora spendere per noi stessi e per gli altri. Un capitolo di vita che spesso tendiamo a esorcizzare, allontanare dai nostri pensieri, rimuovere o demonizzare perché abbiamo paura di prendere seriamente in considerazione l’immagine del tempo che passa e soprattutto una nuova realtà con cui dobbiamo fare i conti e convivere, nel delicato tentativo di un equilibrio fra passato, presente e futuro. In fondo, temiamo sempre l’imponderabile, quello che non riusciamo e non possiamo controllare, ma anche la fragilità, la vulnerabilità e la debolezza che portano a limiti scomodi e impattanti.
Assistiamo a rigurgiti di orgoglio e ribellione come in André Gide, che affermava: “La mia vecchiaia avrà inizio quando smetterò di indignarmi”. Oppure una pacata constatazione in Seneca, per il quale “La vecchiaia è una malattia inguaribile”. Per la forza dirompente e il realismo spietato di Nikolaj Gogol, la vecchiaia rappresenta una condizione “orrenda e minacciosa che non ridà nulla indietro”, mentre Rita Levi Montalcini era pronta ad affermare: “Contrariamente all’opinione corrente, il cervello non va fatalmente incontro con gli anni a un processo irreversibile di deterioramento. Sia Tiziano che Michelangelo e molti altri artisti di straordinaria capacità creativa – Picasso tra questi – continuarono a realizzare opere di eccezionale valore sino in tarda età”. La tragedia, per Oscar Wilde, non era nel fatto di essere vecchi ma di sentirsi ancora giovani col sopraggiungere dell’età avanzata, mentre per Giacomo Leopardi, che ebbe la sventura di non raggiungere mai quella fase, era vista come “il male sommo perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti”. Potremmo anche essere tutti d’accordo con Bette Davis, che ebbe a dire “La vecchiaia non è un posto per femminucce”, perché se la vita ci appare a volte in tutta la sua durezza, la vecchiaia tende a enfatizzare tutte le note più scomode e indebolisce spesso le nostre risorse reattive.
In letteratura la vecchiaia non appare un gran bel tema per la poesia che ne estrapola prevalentemente aspetti come la tristezza, la depressione, il senso di ineluttabilità e inutilità, la decadenza e la mancanza di spinta interiore, ma lo è in tutta la sua forza nei racconti e nei romanzi dove è possibile dipingere scenari e situazioni negli aspetti più disparati, così come nella realtà accade. In ‘L’amante giapponese’ di Isabel Allende (2015), la ricca ultraottantenne Alma Belasco sceglie di trascorrere ciò che resta della sua vita a Lark House, una residenza per anziani nei pressi di San Francisco. Ciò che le dà forza, vivacità e bellezza è il ricordo di Ichi, il figlio del giardiniere giapponese della sua famiglia, il vero e unico grande amore con cui trascorse gran parte della sua infanzia e giovinezza. A interrompere la relazione arrivarono le conseguenze della Seconda Guerra mondiale, i campi di prigionia in cui vennero internati i giapponesi in America , e successivamente i diktat sociali, le pressioni familiari. Un amore in tempi sbagliati che rimane però integro e indistruttibile anche a tarda età, che trascende ogni difficoltà e diventa ragione di vita. Intorno a Lark House, nei delicati tratti a cui ci ha abituati Isabel Allende, vivono e si muovono bizzarri vecchietti, signore ancora affascinanti, anziani che pur consapevoli dell’età e dei cambiamenti hanno deciso di non mollare. Il ricordo è il filo conduttore a cui Alma si affida e con il ricordo affiora tutto ciò che è stata la sua vita consumata tacitamente nell’amore per Ichi.
Il vecchio Antonio Josè Bolìvar Proaño, nel romanzo di Luis Sepùlveda ‘Il vecchio che leggeva romanzi d’amore’ (1989), ha una sua idea ben precisa sui ricordi: “Aveva sentito dire spesso che con gli anni arriva la saggezza, e aveva aspettato fiducioso che questa saggezza gli desse quello che più desiderava: la capacità di guidare la direzione dei ricordi per non cadere nelle trappole che questi spesso gli tendevano…”. Anche in ‘Giorno di silenzio a Tangeri’ di Tahar Ben Jelloun (1989) prende vita un anziano arrivato a tarda età che in questo caso si aggrappa al suo rancore, all’orgoglio ferito, lanciando postille avvelenate a figli, amici e moglie. E’ solo nel suo rimurginare, immobile nel suo letto a consultare la sua consunta rubrica piena di numeri, nomi, indirizzi, simboli di un mondo che non c’è più. E’ il ritratto autobiografico del padre autoritario, prevaricatore, rimasto alla fine con i suoi rimpianti e sentimenti mai espressi. Ben diversa la figura dell’anziano cardiochirurgo di Seattle in pensione che anima il romanzo di David Guterson (2000) ‘Oltre il fiume’. Rimasto vedovo e ammalato di un male incurabile, l’uomo decide di lasciare tutto e partire con la sua vecchia auto e i suoi due cani alla volta del Nordovest degli States. L’ultimo viaggio, forse, tra aspre montagne, deserti rocciosi, canyon, lande estese e ranch ai confini del mondo: una ribellione alla rassegnata attesa della fine definitiva, un guizzo di puro amore alla vita per quello che ancora la vita può offrire, un rifiuto all’annichilimento. E che dire degli anziani che popolano i due felici romanzi della giornalista e scrittrice finlandese Minna Lindgren? In ‘Mistero a Villa del Lieto Tramonto’ (2015) e il successivo ‘Fuga da Villa del Lieto Tramonto’ (2016) Irma, Siiri, Anna-Liisa e altri ospiti che vantano età ragguardevoli si trovano invischiati in situazioni a volte tragicomiche da vero dark humor finlandese, che interrompono il tranquillo scorrere delle giornate tra una partita a canasta, una sessione di ginnastica dolce e un whiskino prescritto dal medico. Un’immagine diversa dell’anziano come generalmente ci viene presentata, ma non così introvabile nella realtà. Senso dell’umorismo e curiosità tengono ancorati al gusto di vivere il presente e la vecchiaia viene vissuta con quel pizzico di leggerezza che diminuisce la paura e il sentirsi minacciati.
In vecchiaia i rimpianti non dovrebbero superare i sogni: viviamo in media 35 anni più dei nostri bisnonni e abbiamo una seconda esistenza da adulti. Le neuroscienze dimostrano la capacità di creare nuove connessioni, acquisire abilità e informazioni continuamente, anche nell’anzianità, con il grande pregio di diventare mentori dei nostri giovani trasmettendo valori e competenze. Non onorare la vecchiaia è come disconoscere tutto quello che siamo stati e che possiamo ancora essere.
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Liliana Cerqueni
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