La scorsa settimana, più o meno dal nulla, ho fatto una cappella enorme.
Mi stavo bevendo una birra all’ora della birra – per convenzione dopo le 19 passate – non potevo fare troppo casino in casa e allora mi son detto: ma dai mettiamo Nick Drake.
Allora mi sono messo le cuffie e c’ho infilato dentro Nick Drake.
L’ho proprio visto arrampicarsi su per il cavetto fino alle terminazioni degli auricolari e la botta è stata fortissima.
Non lo facevo da anni e ovviamente adesso non ne esco più.
So bene quanto il nome di quell’uomo possa sembrare deprimente ma per come la vedo io è ben più deprimente compiere 31 anni.
Però se mi si consente di vedere gli esseri umani come un’enorme distesa di panificati appena usciti dal forno ecco, Nick Drake in quel caso non è pane (cit.), lui è più come i lieviti: e infatti se li conosci lieviti.
Poi si sa, c’è panificato e panificato e c’è lievito e lievito.
Adesso non mi ricordo bene il grado di parentela fra lieviti e parassiti, dovrei farmi un ripassino.
Sono un disastro, ho preso l’attestato da alimentarista neanche un mese fa e mi devo già rinfrescare la memoria.
Allora mentre faccio il mio ripassimo mi prendo anche una bella licenza poeticoscientifica che istituisco così, all’italiana, io per l’occasione, per bypassare l’attesa e tornare dritto a dove avevo iniziato: un uomo che non era pane, qui a parlarci dei parassiti.
Parasite (Nick Drake, Pink Moon, 1972):
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