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È trascorso un quarto di secolo dalla nascita di Windows 95. Da allora è stato un continuo avvicendarsi di novità nel campo tecnologico, che hanno fatto da contrappunto alle generazioni che in questo lasso di tempo si sono succedute, dai digital natives, ai millennials, alla generazione Z. Ora siamo alla Generazione Alfa. Generazioni avvezze fin da subito a un diffuso uso di internet, di Google e Wikipedia, dei social media e di ogni altro ritrovato tecnologico. Le generazioni sono mutate, le scuole che hanno frequentato no. Così erano prima, così pressoché sono rimaste dopo.

Per misurare la cesura tra mondi opposti e l’ottusità del secondo, la scuola, basta rileggersi la circolare che nel marzo del 2007 l’allora ministro Fioroni inviava alle istituzioni scolastiche per proibire l’uso dei cellulari in classe, con conseguenti sanzioni disciplinari. Ironia della sorte, non è mancato chi tale ottusità ha pensato bene di ribadirla all’avvio dell’anno scolastico 2019/2020, alla vigilia della pandemia, che avrebbe sfidato le nostre scuole sulle loro potenzialità tecnologiche e digitali.

Mi è capitato in questi giorni tra le mani un volumetto pubblicato da il Mulino nel 2010 dal titolo quanto mai accattivante Un giorno di scuola nel 2020. Un cambiamento è possibile?
Raccoglie gli atti del convegno organizzato nel marzo del 2009 a Torino dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di san Paolo. Un’occasione per guardare oltre e immaginare una scuola ‘più digitale’, a misura di studente, in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non rappresentino soltanto un’appendice a una impostazione tradizionale della didattica, ma ricoprano un ruolo specifico e costante nel tempo.

Il 2020 veniva traguardato come orizzonte, come anno limite, entro il quale le istituzioni scolastiche avrebbero dovuto portare a compimento il processo di rinnovamento degli ambienti di apprendimento e delle modalità di trasmissione del sapere a fronte delle mutate esigenze educative di ragazze e ragazzi cresciuti ‘in rete’.
Tutti i sistemi scolastici in giro per il mondo sembrano essere resistenti al cambiamento, ma le relazioni al convegno testimoniano di tante esperienze che già allora aprivano nuove prospettive dando centralità alla personalizzazione, all’apprendimento autorganizzato, alle modalità e al contesto in cui l’insegnamento avviene.

Dieci anni dopo dobbiamo parlare di speranze infrante, con la drammaticità di una pandemia che ha reso sempre più paradossale l’esperienza scolastica delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Norberto Bottani, ricercatore e alto funzionario dell’Ocse, a conclusione di quel convegno avvisava, già allora, che il problema non sono le nuove tecnologie, ma gli insegnanti e gli studenti.
Le nuove tecnologie evolvono a grande velocità e i bambini se ne impossessano con una facilità estrema, non hanno bisogno né di insegnanti né di educatori per farlo.

La questione degli insegnanti è invece davvero complessa e non si è fatto nulla per esplorarla in tutte le sue componenti, ritardando nel tempo la possibilità di individuare soluzioni valide. Una categoria preoccupata di vedere sempre più svilito il proprio ruolo, di perdere autorevolezza agli occhi degli allievi. Così disciplina e mantenimento dell’ordine sono le ancore di salvezza a cui aggrapparsi, mentre crescono le forme di resistenza a mutare l’organizzazione dell’apprendimento (ci saranno ancora le aule, le classi, i voti?), pertanto l’adozione delle nuove tecnologie avviene in un contesto identico a quello tradizionale. Come muterà il profilo professionale, come cambieranno le modalità di selezione e di formazione?

Resta il tema dell’universo studentesco. C’è un abisso tra il modo di pensare degli studenti e il modo di pensare degli insegnanti. La scuola è incapace di trasmettere ciò di cui gli studenti hanno bisogno nelle forme che più convengono loro. Le ricerche condotte da fondazioni come la MacArthur negli Stati Uniti hanno da tempo evidenziato che ragazze e ragazzi delle generazioni in rete possiedono una visione precisa di quel che si aspettano dalla scuola. Migliaia di interviste fatte a studenti di tutti i ceti, di tutte le età e di tutte le nazionalità fanno emergere risposte assai nette. Non tollerano più le lezioni cattedratiche, vogliono essere rispettati, vogliono che si abbia fiducia in loro, vogliono che si tenga conto delle loro opinioni e che li si apprezzi. Chiedono di coltivare le proprie passioni e i propri interessi, di creare utilizzando gli strumenti del loro tempo. Chiedono un’istruzione che abbia le radici nella realtà, chiedono di cooperare, di lavorare in gruppi per realizzare progetti e controllarne l’esecuzione, chiedono di avere un ruolo in classe e al di fuori della scuola.

Siamo arrivati al 2020 con tutto fermo a come era prima. Se non fosse che il virus ha scompigliato tutte le carte. L’emergenza ancora una volta ha impedito di vedere i problemi veri, rinviando a data da destinarsi la risposta alla domanda che oltre dieci anni fa il convegno si poneva e cioè se un cambiamento fosse possibile. Ora i fondi della Next Generation EU ci offrono un’occasione unica e irripetibile, il pericolo vero è che la scuola e la politica si facciano cogliere impreparati con il rischio di non spendere quelle risorse o di spenderle male.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.


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