In una delle sue riuscite caricature, Corrado Guzzanti impersonava un Walter Veltroni buonista e desideroso di comporre ogni contrasto nell’ecumenismo, appunto, veltroniano, che gli faceva ugualmente apprezzare una cosa e il suo contrario. Una cosa era bianca ma anche nera, ed erano entrambe buone e presenti sotto il grande ombrello del progressismo democratico.
Ecco, appunto. Lo dice uno che lo fa da marzo: lo smart working è una delizia, ma anche una croce. Il primo mese è una croce subdola, della quale nemmeno ti accorgi. Te lo fa notare chi vive con te, quando vorrebbe apparecchiare per cena quel tavolo sul quale hai sparso documenti e stampante come se non ci fosse un domani. Il primo, istintivo effetto del lavorare a casa (che non è come lavorare in una sede decentrata: è un’altra cosa) è la scomparsa di un confine imposto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, che è anzitutto l’assenza del confine spaziale. Intanto non devi fare una strada, un percorso che separi fisicamente il luogo dove lavori da casa tua. Al resto della croce provvede l’inconscio senso di colpa del privilegiato che lavora in poltrona, e che quindi deve espiare sgobbando senza un orario, tra la lavatrice da svuotare, i panni da stirare e i cani da portare a pisciare. Così arrivano le dieci di sera e il pc è ancora acceso. Se sei una donna, questa croce rischia di diventare un calvario, perchè nel frattempo col piffero che il lavoro di cura viene redistribuito tra i membri della famiglia: rimane, esattamente come prima, a carico della donna. E allora il pc può restare acceso alle due di notte, perchè svanisce anche il confine circadiano. Il diritto alla disconnessione va quindi imposto: gli strumenti e la rete intranet di accesso ai portali di lavoro devono essere disattivati ad una certa ora – oppure dopo un certo tempo di lavoro continuativo. Questa barriera tecnologica è un elemento di tutela primario, perchè in un tempo che sarà velocissimo qualcuno proporrà di incorporare gli strumenti aziendali dentro la persona del lavoratore, eliminando anche la distinzione fisica tra mezzo tecnico e essere umano. Three Square Market, una realtà tecnologica con sede nel Wisconsin, sta per espandere il suo programma che prevede l’inserimento di microchip sottopelle ai propri dipendenti. A quel punto la necessità di tutelare chi lavora dalla possibilità distopica di essere controllato a distanza in ogni istante diverrà la frontiera sindacale del terziario avanzato. Le aziende più lungimiranti, infatti, usciranno dalla logica del controllo a vista del dipendente, chiedendo in contropartita un salario sempre più legato ai risultati, agli obiettivi: lavora come e quando ti pare, ma ti pago in proporzione ai target che raggiungi. Le aziende più malefiche, invece, faranno entrambe le cose: controlleranno il dipendente stando dentro il suo corpo, e contemporaneamente vorranno retribuire i suoi risultati, non il suo tempo. Attenzione perchè rischia di realizzarsi una metamorfosi del sinallagma capitalista industriale: salario in cambio di tempo. La sfida non sarà più soltanto quella di liberare tempo, ma di rintuzzare l’affermarsi di un nuovo scambio: salario in cambio di risultato, di prodotto, di venduto. Chiunque lavori nei settori che spingono già in questa direzione(banche, assicurazioni, grande distribuzione, ma anche la sanità privata) capisce che questa modifica dello scambio rischia di trasformare tutti i lavoratori in venditori di prodotti, e tutti i clienti in vacche da mungere. E vince chi è più disinvolto, spregiudicato, privo di scrupoli. (NdA: introdurre un obiettivo – possibilmente non autodeterminato – di qualità ed efficienza nella Pubblica Amministrazione dei servizi documentali/amministrativi potrebbe invece essere un bene, anche se non legherei a questo obiettivo parte della retribuzione. Ma della carriera, sì).
E la delizia? La delizia è anzitutto il risparmio di tempo e denaro. Pensiamo all’enorme economia di risorse, anche energetiche, che si realizza organizzando video riunioni tra cinquanta o sessanta persone anzichè farle spostare tutte in giro per il mondo, su aerei o treni o mezzi privati. Non si viaggia, non si spende per mangiare fuori casa, si inquina meno, soprattutto nelle grandi città. Che poi questo sia una croce per gli esercizi commerciali che campano sui pasti dei pendolari non è affatto da sottovalutare. Che l’indotto commerciale in genere, che guadagna dall’attitudine a spendere di chi passa nove o dieci ore al giorno in città, ne soffra è indubbio – e anche questo è un settore che impiega migliaia di persone, che tra l’altro lo smart working se lo scordano. Tuttavia, succede quello che succede ogni volta che una trasformazione tecnologica è talmente potente da rendere illusorio qualunque tentativo di contrastarla. Per interi settori dei servizi, il lavoro da remoto diventerà una realtà stabile, perchè le aziende più accorte si sono già rese conto che il denaro da investire per dotare i dipendenti delle attrezzature tecniche e logistiche necessarie a lavorare in sicurezza ed ergonomia da casa, è inferiore al denaro che risparmiano potendo evitare di pagare canoni di affitto per i locali uso ufficio, potendo smobilizzare patrimonio immobiliare.
Quando la fase acuta dell’epidemia da Covid sarà superata, quando non si dovrà più dividere l’utilizzo del pc privato coi figli costretti alla didattica a distanza, lo smart working che conosciamo, abborracciato, senza tutele, emergenziale, dovrà essere sostituito da lavoro agile di qualità. L’unica direttrice da seguire per gestire questa transizione sarà quella dell’equilibrio. Come l’evoluzione tecnologica che ne costituisce la base, lo smart working non è nè buono nè cattivo. Dipende dall’utilizzo che se ne fa, e dal sistema di tutele che ne regolamenterà l’esercizio.
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Nicola Cavallini
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