Discoteca. Movida. Covid-19. Una volta c’era lo Studio 54 a Manhattan, adesso il Twiga a Marina di Pietrasanta. Ognuno può pensarla come crede sulla evoluzione o sul decadimento del gusto, musicale e del costume, intercorso dagli albori del clubbing (1977 circa) ai giorni nostri. Per me è decadimento, ma potrebbe dipendere dal fatto che sto invecchiando; si sa che i “bei tempi” sono sempre quelli in cui eravamo ragazzi noi. Resta il fatto che non esistono due luoghi/fenomeni che condensino meglio il contrasto di valori e di interessi ed un simbolico contrapporsi tra frivolo e impegnato, tra effimero e duraturo, tra leggero e pesante, in tempi di pandemia.
Parto dai valori. Facciamo finta che chi parla di “diritto al divertimento” e “diritto alla socialità” non stia travestendo con concetti di valore la difesa mera, quanto comprensibile, di concreti interessi economici (di questo parleremo dopo). Voglio prendere sul serio il tema di dove i ggiovani preferiscono ritrovarsi e come i ggiovani preferiscono “divertirsi”. Da una parte c’è il concetto di socialità ludica. Dall’altra c’è la tutela della salute pubblica, che in realtà significa anche della salute privata, individuale, di ciascuno e specialmente dei più deboli (anziani, ammalati, immunodepressi). Non intendo cimentarmi pure io nell’interpretazione dei dati sulla risalita dei contagi; interpretazioni che servono, quasi sempre, a giustificare una tesi o la tesi contraria, le quali hanno un punto in comune: il fatto che preesistono ai dati, non conseguono ad essi. Sono tesi che si vogliono apodittiche, e interpretare la statistica serve semplicemente a rafforzare il proprio dogma, indiscutibile per definizione. Quindi se io sostengo, a priori, che esiste un complotto plutogiudaico per chiudere il pianeta a chiave sotto la minaccia di un orribile virus studiato a tavolino, ma contemporaneamente sovradimensionato e, tutto sommato, poco pericoloso, la risalita della curva contagiosa non è altro che propaganda per giustificare l’introduzione di uno Stato Etico, che mi dice come divertirmi e come curarmi anzi, che mi obbliga a non divertirmi e a curarmi. Come dire che Bill Gates, il Dio del Male, ha messo in circolazione un pericoloso virus per lucrare sulla commercializzazione del vaccino universale, ma il virus è poco più di un’ influenza; coerenza logica del ragionamento pari a zero (è una guerra batteriologica o è un banale raffreddore?) ma il complottista sa trovare collegamenti fantasmatici tra i fatti del mondo (idioti, svegliatevi!) e sorvola sui palesi ossimori delle sue elucubrazioni.
Se viceversa sono convinto che questo non sia che l’inizio di un’era di piaghe bibliche, e che il terribile antropocene ha ridotto la Terra ad una discarica rovente di cui l’epidemia Covid non è che una delle prime conseguenze, la chiusura temporanea dei locali dove si beve e si balla è una misura troppo blanda. Certi posti andrebbero murati e riconvertiti in fabbriche di mascherine.
Esagero? Se frequentate con un minimo di capacità (auto) critica i social network, converrete che è praticamente impossibile cambiare la propria opinione leggendo quella di uno che la pensa diversamente. Il social non serve a mettere in discussione le proprie idee, serve a sbeffeggiare l’opinione altrui, e glorificare la propria. Le fonti altrui sono fake per definizione, le proprie sono scolpite sulla pietra. La ricerca dell’attendibilità delle fonti non è un’attività contemplata, perché rischierebbe di farci cambiare opinione, e questo non è previsto.
La mia opinione sul versante “valori” prova a seguire, e non precedere, l’osservazione, filtrata dalle considerazioni di qualche tecnico assennato, dei dati sulla pandemia. Una delle principali ragioni per cui il virus colpisce meno duro che in marzo/aprile/maggio, sta nell’adozione di massa delle misure di distanziamento fisico e nella prevenzione con o senza dispositivi (igiene e mascherine, disinfettanti). Un’altra ragione sta nel fatto che le terapie sintomatiche sono più mirate che all’inizio della epidemia, e questo dipende in buona misura dagli errori commessi e dai tentativi fatti. Non esiste, invece, alcuna evidenza scientificamente provata che il virus in sè si sia “indebolito” o abbia perso “carica virale”. Molto più banalmente, se uno si becca uno sputacchio con mascherina addosso (possibilmente indossata sia dallo sputacchiatore che dalla vittima) incamera meno virus di uno che se lo prende in faccia senza protezione alcuna. Sarà anche un risultato parziale, ma serve ad evitare un bel po’ di infezioni severe, di quelle che portano in terapia intensiva. Se le ragioni sono queste, chiudere i locali dove le persone si assembrano naturalmente le une vicino alle altre, e farlo non per sempre, ma temporaneamente e magari diversificando per territori, è una misura di buon senso. Punto. Le altre considerazioni sono ovvie (non puoi evitare la vicinanza fisica in discoteca: appunto, quindi meglio chiuderla per un po’) o ridicole (dalle sette alle diciotto il virus non è meno aggressivo: no, però dalle diciotto alle sei si va in disco, nell’altra fascia oraria no).
Passiamo agli interessi. Qui gli schei sono il fulcro del mondo, di questo mondo. Nel mondo dell’effimero gli schei sono quanto di più duraturo esiste, e quando vengono a mancare la reazione è scomposta e arrogante, perchè scomposto e arrogante è il modo in cui, nel microcosmo del divertimento giovanile, vengono fatti i soldi. Non ho reperito dati attendibili che confermino la leggenda web secondo la quale i gestori delle disco denunciano mediamente un utile di 4.600 euro l’anno. Peraltro non si tratta del fatturato (o ricavi), che invece le stesse associazioni di settore attestano attorno al miliardo abbondante di euro. Diviso circa 3.500 locali, mediamente farebbe circa 340.000 euro l’anno, che ci può anche stare; non perchè questo sia il fatturato reale, ci mancherebbe altro, ma perchè è verosimile che all’Agenzia Entrate il dato medio che perviene sia questo. Diciamo che, visto che in questi giorni le medesime associazioni adombrano una (incredibile ed autolesionista, viste le denunce dei redditi) perdita del settore di 4 miliardi, e scontando una esagerazione di segno opposto in entrambi i dati, una ragionevole media recente degli incassi reali del settore potrebbe attestarsi, in un periodo ante epidemia, sui 2,5 miliardi. E nella media ci stanno gli estremi: come i circoli, che se non hanno già chiuso lo stanno per fare e la cui (purtroppo) marginalità sociale ed economica si riflette anche nell’inesistente eco mediatica delle loro difficoltà. E poi abbiamo l’estremo opposto, rappresentato dai sindacalisti ad honorem della ricchezza arrogante e scomposta, costruita su un disinvolto mixaggio (per dirla alla Bob Sinclar, altro milionario e vaniloquente genio delle consolle) tra risorse ereditate, capacità proprie e spiccata attitudine al delitto fiscale. Flavio Briatore e Daniela Santanchè, soci in affari, pagano per l’affitto dell’area dove insiste il mitico Twiga di Marina di Pietrasanta 17.620 euro l’anno. Avete capito bene. Il locale fattura, secondo gli ultimi dati noti, più di 4 milioni. E in Italia le concessioni demaniali sono state prorogate (in violazione dei dettami europei) fino al 2034, senza gara. Trasmissione ereditaria. Segmenti importanti del settore saranno anche in crisi, e c’è sicuramente una parte dei gestori della balneazione che rischierebbe di perdere le concessioni a favore dei grandi gruppi. Tuttavia, qualcuno mi spieghi perchè lo Stato, altro esempio, deve continuare a far pagare ai gestori del Papeete diecimila euro di affitto l’anno. Tra il non consegnare le nostre spiagge nelle mani degli sceicchi arabi o dei magnati russi e la creazione della ennesima minicasta di ipergarantiti, che non solo hanno la concessione perenne, ma la pagano un prezzo ridicolo, ci sarà pure una via di mezzo più equa. Stranamente, il principio della libera concorrenza vale solo quando riguarda gli altri. Quando riguarda se stessi, deve essere sacrificato in nome della “salvaguardia delle piccole imprese” (toglietevi lo sfizio di leggere qualcuna delle, talora esilaranti, prese di posizione contenute nel sito mondobalneare.com).
In conclusione: è giusto chiudere temporaneamente i locali da ballo, anche all’aperto, in nome della salute pubblica? Si, è giusto. Non c’è nulla di talebano in questa scelta, ma l’applicazione di un principio di responsabilità civica, secondo il quale nessuno può esercitare con arbitrio la propria libertà se danneggia o espone a grave rischio la salute altrui. Altrimenti vale tutto, compreso ubriacarsi e mettersi al volante. E’ giusto pensare a tamponare le conseguenze economiche di queste chiusure? Sì, è giusto, purchè non si trattino tutte le esigenze come se si trattasse invariabilmente di gente che viene ridotta alla fame. Qualunque misura di sostegno al settore dovrebbe essere informata al principio che il “settore” non è un monolite (esattamente come “le imprese”: Confindustria non rappresenta gli interessi del bottegaio), e che alcuni meritano aiuto, altri devono annoverare tra i costi d’impresa anche il pagamento di un giusto prezzo allo Stato, e non hanno diritto a un bel niente.
Per leggere gli articoli precedenti di SCHEI, la rubrica di Nicola Cavallini, clicca [Qui]
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Nicola Cavallini
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