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Siamo abituati a pensare alla crescita, al miglioramento, in termini di ascesa verso l’alto.
Arrivare implica passaggi che inconsapevolmente associamo ad una progressione verso una salita: scalare una montagna, avanzare nel percorso scolastico, dominare, essere sopra.
Ma se si desidera comprendere il senso profondo non solo di ciò che facciamo, ma di quello che siamo, se vogliamo arrivare a questa consapevolezza, allora, paradossalmente, dobbiamo scendere…non salire!

Di questo, la nostra società unidimensionale, iper tecnicizzata, narcisistica, finalizzata al consumo sembra non avvertirne il bisogno.
Certo è che di questa discesa, dell’abbassarsi dell’anima, ci parlano già gli antichi attraverso il racconto mitologico; tra tutti il mito di Er. Nel corso dei secoli poi , nel passaggio dalla cultura greca a quella cristiana, la discesa contraddistingue in modo sconvolgente il mistero dell’incarnazione di un Dio.
E infine si può arrivare, con buona pace per chi la ritiene in opposizione, alla interpretazione psicologica, in cui possiamo riconoscere , tra i percorsi più significativi, quello di James Hillman, a cui si devono i maggiori sviluppi della psicoanalisi di derivazione junghiana, in cui la discesa nell’anima diventa fondamentale all’interno del processo di consapevolizzazione del riconoscimento della propria individualità.

Nel percorso tracciato la dimensione tipicamente umana non sarebbe quindi connotata solo da  un essere che abita terra, ma anche da quella di una essenza che per trovare la propria personale, unica irripetibile realizzazione deve avere il coraggio di scendere fino alla profondità inesplorata del proprio io, fino a vedere la propria ombra, fino, se necessario, all’inferno, per dirla con Hillman.

Tra destino e libertà

Le cose accadono e non sempre sono in nostro potere, non ogni evento può essere accolto, ci sono tragedie più grandi di noi, vere catastrofi che ci dilaniano e quasi ci annientano. Tenendoci ben stretto quel quasi, quello che possiamo fare è affrontarle senza lasciarci schiacciare.
Questo non può venire dal di fuori, da raccomandazioni, suggerimenti, inviti, ma solo dal di dentro.
Anake (la necessità per i greci), il nostro destino, il caso o chi per lui ci ha collocato in un percorso, ma in questo  viaggio possiamo sempre scegliere. Scegliere di voler essere sempre presenti, coscienti e, per quel che è possibile, di voler tenere stretto ciò che viene lasciato alla nostra disponibilità.
Hillman ha difeso fino all’ultimo respiro, fino al termine della sua vita, questa volontà di continuare a pensare. Restare pensante era la sua scommessa, la sua sfida, anche quando il dolore si è fatto insopportabile, come  ha scritto nella sua ultima mail alla giornalista Silvia Ronchey: ”Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere!”

L’Ombra e la discesa agli Inferi

Siamo esseri limitati, caratterizzati dalla precarietà.
La Legge del Padre, cioè la presenza di limiti ai nostri desideri, condanna ad una necessaria uscita da un delirio di onnipotenza e ad una necessaria discesa agli Inferi, ad una cioè accettazione/lotta contro la presenza del male in tutte le sue dissimulate espressioni.
La discesa agli Inferi non a caso la ritroviamo già nella letteratura della antichità. Ricordiamo il viaggio di Persefone, quello di Euridice, l’amata sposa di Orfeo, e soprattutto quello di Ulisse narrato nel libro XI dell’Odissea ed infine la discesa di Enea tra i morti, cantata da Virgilio.
Viaggi differenti ma che hanno tutti a che fare con il rapporto col destino, nella volontà di conoscerlo, modificarlo, prevederlo.

 La lotta

Solo questa discesa, questo percorso di consapevolezza e accettazione, porta all’incontro della propria Ombra, concetto junghiano funzionale alla riuscita del proprio processo individuativo.
Impastati come siamo di elementi positivi e negativi, di male e bene, possiamo crescere solo affrontando e reggendo  il conflitto, come Eracle nel mito antico, in una continua tensione dialettica , ponendoci di fronte al lato oscuro della nostra personalità.
L’Ombra, e non la sua negazione, quindi come motore della trasformazione.
Possiamo evitare di sprofondare negli Inferi, dopo aver deciso di scendervi, soltanto attraverso la consapevolezza di come siamo in realtà, mentre prendiamo dolorosamente contatto con i nostri fantasmi inconsci, con le nostre angosce, insomma con il nostro limite, con i nostri fallimenti.

Al di fuori di ogni valutazione morale, la biografia di Rossana Rossanda, recentemente scomparsa, esemplifica bene quanto fin qui detto, nella differente accettazione del fallimento politico rispetto alla lacerante decisione del suicidio assistito nel 2011 del compagno di strada Lucio Magri. Scrive su  Repubblica del 20 settembre Alessandra Longo: “Il fallimento politico di Magri era anche quello di Rossanda, che lei avvertiva. Ma sia pur bloccata in carrozzella, dopo un ictus, sia pur delusa dalla volgarità della politica attuale, Rossanda, allieva come detto del filosofo Antonio Banfi e pure dello storico dell’arte Matteo Marangoni, ha conservato fino all’ultimo l’anticorpo più forte alla depressione: percepiva, da esteta allenata, la bellezza. “Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura”. La bellezza, appunto. Quella bellezza che aveva conosciuto da piccola, in Istria, passeggiando sulle isole deserte piene di conigli selvatici, tra i narcisi alti come me che profumavano forte“. [Vedi qui]

Scendere… con Andrea Segre

Molecole  di Andrea Segre è stato  il film scelto per  la  pre apertura della 77esima Mostra del cinema di Venezia 2020 . Un film straordinario per diversi motivi e in cui possiamo ritrovare una struggente, intima  traduzione in immagini del tema qui trattato,  della decisione cioè, maturata in occasione del lockdown a Venezia, di scendere nella propria anima per intraprendere il viaggio più difficile, quello dentro se stessi, nei ricordi del padre Ulderico, stimato professore di chimica scomparso nel 2008, ricerca interiore sempre rimandata.

Segre racconta se stesso nella città del padre e della sua infanzia, Venezia, in cui è rimasto bloccato, con moglie e figlia, dal lockdown mentre stava girando un documentario sui problemi dell’acqua alta e del turismo. Confinato nella piccola casa di famiglia  alla Giudecca, ha avuto così l’occasione  di scavare nei ricordi, in particolare di riprendere il dialogo sempre cercato mai del tutto compreso dal padre. Messa da parte ogni sceneggiatura il regista inizia così il suo viaggio non programmato in una Venezia segnata dalla pandemia, svuotata, magica ed inedita, metafora del suo stesso stato d’animo, scenario unico e irripetibile su cui finalmente possono prender corpo le risposte ai suoi fantasmi del passato.
Ciò che aveva contraddistinto il dialogo padre-figlio era stato il silenzio.
Ascoltiamo dalla voce narrante del regista, che accompagna il cuore dello spettatore per tutti i settantun minuti dell’opera, il testo della lettera scritta al padre venti anni addietro, conservata e ritrovata nel cassetto del suo studio: “Tu non racconti mai tantissimo, ma perché tu sei così. Hai sempre detto poche cose. Fa parte dell’essere padre, forse…Nella vita capita di non sentirsi troppo bene e capita addirittura di credere che nessuno possa capire perché, nemmeno tuo padre o tuo figlio. Perché è davvero così, davvero a volte in questa vita sei solo, ti guardi intorno e l’unica cosa che puoi fare è sentirti poco bene e cercare una strada silenziosa dove camminare. A volte capita, vero papà?”
Al termine Andrea aggiunge un laconico, sconsolato: “non mi ha mai risposto.”

In un qualche modo la solitudine di Andrea è anche la nostra; così come la sua discesa avvenuta al di fuori dei suoi consueti processi di razionalizzazione e programmazione, ma in virtù del caso, del destino, insomma dell’imponderabile, non può non fare riflettere. Ed è il rapporto col destino che rende così caro al padre lo scrittore Albert Camus, ed in particolare un suo romanzo Lo Straniero. Destino affrontato dal padre nella lucida consapevolezza della sua fragilità dovuta alla malattia al cuore, che prima o poi l’avrebbe ucciso.
In una altra lettera trovata sempre dopo la sua morte, il padre spiega ad una cara amica che ciò che lo conquistava del libro era il rapporto inevitabile tra l’uomo e il suo destino: “Il destino –  scrive  – è preparato da eventi al di fuori dal nostro controllo, ognuno nasce con una parte scritta, tanto vale accettarla”. Comprende Andrea ora la paura del proprio genitore, paura della morte, ma non solo, paura della mancanza di risposte definitive. Per cui lo studio da parte del padre della scienza, in modo particolare delle molecole di cui in modo invisibile è composta la materia, diventa il tentativo di comprendere il funzionamento del suo destino, di dare un senso al caso.

Metafora nella metafora: come il silenzio paradossalmente viene ricordato come ciò che ha connotato  il dialogo col  padre, nella razionalità della scienza Ulderico ricerca il rapporto con l’inevitabile, l’inesprimibile.
Solo adesso Andrea comprende il padre, perché perdonandolo, perdona se stesso: le angosce del padre sono le sue, le stesse domande, la stessa ricerca. “Bisogna affidarsi a ciò che non puoi prevedere e saper riconoscere segni così piccoli che spesso scompaiono prima che tu possa notarli. E’ come non sapere perché sai, avere la pazienza di perderti per trovare qualcosa. E non essere sicuro di capire, ma sapere di doverci essere, di dover rimanere nel cuore di una solitudine che ti può tenere in vita.”

Ecco l’esito della discesa agli inferi, il prendere contatto con l’intangibile, l’inafferrabile della vita. Come la nebbia che a Venezia fa sparire le cose, per diventare la realtà vera delle cose, per riuscire a comprendere la loro e la nostra precarietà e fragilità, la loro esistenza anche se non si vedono, ma che vedremo quando la nebbia salirà.
Il mare circonda Venezia. C’è qualcosa di meno stabile, fermo, sicuro del mare?
Non ci sono risposte definitive, come non ci sono certezze, sicurezze assolute. Umanamente le cerchiamo, come per tutta la vita cerchiamo il Padre,

E’ in questo dialogo ininterrotto con l’altro e con noi stessi, in questo riconoscersi deboli che sta la nostra forza, per cui ricordiamo delle persone cose piccole come il sorriso anche se dimentichiamo presto la voce che invece abbiamo sentito tutti i giorni. Come ci ricorda Andrea: “Aveva un bel sorriso mio padre. L’ultimo giorno che siamo stati insieme, non sapevo che fosse l’ultimo giorno, ma mi ricordo che andandosene mi ha sorriso.
– Andrea, hai qualcosa da fare stamattina? Oggi non ho voglia di andare via. –
C’è una sola cosa che ora avrei davvero voglia di chiederti, papà. Quel giorno, quando hai deciso di non andare a lavorare e di stare con me tutta la mattina, quel giorno che ti sei svegliato, hai sorriso e mi hai chiesto se mi andava di stare un po’ con te, quel giorno papà tu sapevi che poi non ti avrei mai più rivisto? Perché proprio quel giorno hai deciso di stare con me? Cosa sapevi, come potevi sapere? Come si fanno a sapere queste cose, papà? So che non mi risponderai mai, ma la differenza è che ora forse so anche perché.”

Cover: fotogramma tratto da “Molecole” di  Andrea Segre

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Roberto Paltrinieri



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