Non ho almanacchi, almanacchi per l’anno nuovo da vendere. Anzi, i nostri sono tempi che gli almanacchi ci ingombrano, ce n’è sempre di troppi in casa e finisce che si gettano nella spazzatura.
È la metafora ormai delle nostre esistenze, non solo non torneremmo indietro, ma neppure siamo certi di andare avanti.
Se nel dialogo leopardiano tra il venditore di almanacchi e il passeggero, quel passeggero fossimo noi non diremmo: “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce, non la vita passata, ma la futura”. Le nostre parole sarebbero che l’anno che sta per passare ha fatto schifo e che il prossimo certo non sarà migliore, senza bisogno di competere con il pessimismo del poeta di Recanati. Cosa ci è successo, cosa ci succede.
Un aiuto ci può venire da quella che Jared Diamond nel suo libro, Collasso, definisce “normalità strisciante”. Scrive: “Se l’economia, le scuole, il traffico automobilistico, o qualsiasi altra realtà del vivere quotidiano peggiorano poco alla volta, è difficile riconoscere che, ogni anno che passa, la situazione diventa leggermente peggiore; di conseguenza, lo standard in base al quale definiamo la ‘normalità’ cambia in modo graduale e impercettibile. Ci possono volere decenni e una lunga sequenza di lievi cambiamenti, anno dopo anno, prima che ci si renda conto che la situazione era un tempo decisamente migliore, e che quello che ormai si accetta come normale risponde a standard assai inferiori a quelli del passato”. A cambiarci, secondo Diamond, contribuisce anche “l’amnesia del paesaggio”: è facile dimenticare quanto fosse diverso molti anni fa il territorio su cui viviamo, se il cambiamento è avvenuto in modo graduale.
Noi lo sappiamo e fingiamo di non saperlo. Non ci attendiamo nulla di nuovo dall’anno nuovo, continuiamo a vivere con la cautela della diffidenza, senza riuscire mai a notare la presenza di un problema prima che sia troppo tardi.
Più la società si fa aperta, più individualmente abbiamo l’impressione di essere esposti ai colpi del destino. Ci illudiamo di governare la rete globale dell’informazione e della comunicazione, col risultato che siamo sempre più soli di fronte alla nostra sorte. Ed è questo sorteggio che sfugge alle nostre mani a farci dubitare che il domani sarà migliore dell’oggi.
I cambiamenti si dilatano nel tempo, si fanno impercettibili per poi esplodere inaspettati. Ma noi la dimensione a lungo raggio non siamo in grado di praticarla. Sembriamo tutti figli del carpe diem a partire dalla polis che ci amministra a breve termine, in tempi contingentati.
Il problema dell’essere torna a costituire l’inquietudine della nostra esistenza, ma Platone e Aristotele non ci possono più soccorrere. Il tema dell’essere riguarda il rapporto tra una macchina moderna sempre più complessa e un uomo sempre più elementare. È come vivere al buio, senza senno, privi di forza, di occhi e di mani. Come se avessimo consumato tutto di noi stessi e non fossimo in grado di fare altro che lasciarci trascinare dagli eventi, incapaci di orientarli. Quando non si sa dove andare è difficile vivere con una prospettiva, tutto si appiattisce sul presente, sull’emergenza, sull’urgenza, non ci sarà un anno nuovo che verrà, ma solo del tempo da passare occupati a difendere la nostra sopravvivenza.
Niente programmi, niente ambizioni di lungo respiro, tutto è crisi da affrontare e da superare, armati in una guerra che arruola tutti, giovani e vecchi, da combattere con le armi del rimedio, dei tamponi, del provvisorio.
In guerra ognuno pensa a portare a casa la propria pelle. L’individualismo, l’affievolirsi dei legami umani e l’inaridirsi della solidarietà sono le monete di nuovo conio da spendere nella vita quotidiana. Ci siamo persi di vista. Abbiamo perso di vista anche noi stessi. Il nostro essere dimenticato in qualche piega o anfratto della vita, che ancora attende d’essere riscattato dagli sciamani che gli danzano intorno.
È l’esser-ci, il Da-sein, per dirla con il filosofo, il senso dell’esistenza che dovremmo rinnovare ad ogni anno nuovo, la nostra eucarestia pagana, la comunione che ci nutre. Ma abbiamo voltato le spalle al futuro, gli anni che verranno non saranno più anni, solo lunghe interminabili attese di un futuro sempre uguale se non peggiore. È questo il disturbo nostro e della nostra società per il quale ancora non abbiamo approntato i balsami.
Dai rimpasti indescrivibili di materia, estraggo residuati
fantastici, sotterro agonie di concepimenti mancati. Fra risvolti di
un’età incalcolabile, interna al passato, scavo cercando organi
appartenutimi che mi scagionino dall’anonimità.
Sono versi del poeta Valentino Zeichen.
Scagionarsi dall’anonimato. Scagionarci dalla nostra colpa d’essere anonimi, senza una ragione sociale, come può essere l’anno che viene, se verrà come un anno o come la somma d’un tempo da passare.
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Giovanni Fioravanti
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