Da MOSCA – Domenica pomeriggio. Stiamo passeggiando sulla Stari Arbat (o vecchia Arbat), una delle vie culturali più vive di Mosca, distratti da musicisti e pittori, quando al numero 37/2, angolo Krivoarbatsky Lane, notiamo un muro coloratissimo di graffiti che, poco dopo, scopriremo essere dedicato a Victor Tsoy, fondatore del gruppo russo Kino. Qui, nel 1990, e precisamente il 15 Agosto, apparve la prima scritta “Tsoy è morto oggi”. Poco dopo qualcuno replicò “Tsoy è vivo”. Seguirono altre scritte e commenti, il luogo diventò il riferimento dei fan del cantante fino ad arrivare a diventare, oggi, il luogo dove si lascia un biglietto per un amico o si fissa un appuntamento. Si tratta di un importante luogo di scambi e di incontri, punto di riferimento per molti, nonostante i tentativi, nel 2006, di cancellare i graffiti ad opera dell’Art Destroy Project, falliti per il riapparire di scritte e disegni. Questo muro divenne presto simbolo di libertà.
Rientrata a casa, un po’ stupita ma piacevolmente, mi metto, quindi, a cercare informazioni sulla street art a Mosca, tema che da sempre mi appassiona. Non pensavo di poter trovare anche qui questa forma di espressione, forse perché siamo legati ad un’immagine di un Paese molto chiuso. Ma, anche se la resistenza rimane, non è così. Scopro che pure le scale dell’edificio in cui si trovava l’appartamento di Mikhail Bulgakov erano quasi un “ufficio postale”: le pareti erano completamente ricoperte di illustrazioni e di citazioni tratte dal suo “Il Maestro e Margherita“. Proprio questi due luoghi divennero i primi veri epicentri della street art. I giovani artisti vi disegnavano ciò che maggiormente li preoccupava e che li spingeva a creare.
Trovo, allora, disegni di un certo Pavel, o meglio di Pavel 183. E leggo anche che quando questo giovane vide, a 14 anni, per la prima volta, il muro di Tsoy, che mi aveva tanto attirato, aveva deciso che non avrebbe più smesso di disegnare. Scopro pure, con tristezza, che Pavel, in arte Pasha 183 (o P183), che aveva scelto Mosca come tela per i suoi graffiti, era da poco morto a soli 29 anni, il 1° Aprile 2013, in circostanze, peraltro, ancora non chiarite. Di lui si dice che fosse nato l’11 Agosto 1983, Pavel Pukhov. Perché di lui si sapeva poco, se ne ignorava l’identità. Le poche interviste rilasciate erano state concesse all’ombra di un passamontagna. Anche per questo si era conquistato la fama di “Banksy russo”, diventando famoso perché capace di coniugare arte e denuncia sociale. Scriveva e disegnava sui ponti, sui muri, sulle piazze, lanciava messaggi, apriva dibattiti, faceva riflettere, circolare idee e opinioni, stimolava lo scambio e il dialogo, creando giochi visuali e visivi negli ambienti cittadini più vari. O almeno cercava. Era stato paragonato al writer inglese Banksy, dicevamo, ma anche a Keith Haring.
Pavel riteneva che la sua fosse un’attività creativa, si definiva un ascetico ma non un “artista politico”, amava San Pietroburgo, considerandola la città più europea e aperta della Russia. Si ispirava al grande poeta Vladimir Majakovskij e al suo “Coloriamo la nostra città con vernici multicolore”; d’altra parte anche Sergej Aleksandrovič Esenin componeva i suoi versi per strada. La strada, questa grande fonte di ispirazione. Ne sono stata sempre convinta. Scavando e approfondendo ancora un po’, si può notare (e ricordare) che, qui, nel 1919, dopo la Rivoluzione, i vagoni merci su cui venivano trasportate le truppe venivano spesso decorati da artisti rivoluzionari. E, per questo, Pavel diceva che la street art era figlia del situazionismo, ossia dell’arte della rivoluzione per le strade, definendosi, in sostanza, un “autore satirico di strada”. Concordiamo in pieno. L’arte deve criticare la società ma non fare / essere politica.
Nel 2005, l’artista aveva girato il film Skazka pro Alënku – 2005 (La favola di Aljonka – 2005), in cui la bambina raffigurata sulla confezione del cioccolato Aljonka diventava una sorta di emblema dei bambini contemporanei. Secondo l’autore, ognuno è costretto a vendere sé stesso fin dall’infanzia. Così è la vita nel mondo contemporaneo: ciascuno di noi, come un’anonima e perduta Aljonka, viene venduto e comprato contro la propria volontà. Di cui riflettere. Fra i tanti graffiti, Pavel aveva dipinto, nell’agosto 2011, poliziotti in tenuta antisommossa che calciavano passeggeri in uscita dalla metropolitana, un paio di occhiali neri (il più famoso), sul suolo ricoperto di neve, con un lampione al posto di una stanghetta, una mitraglietta nera e minacciosa a fianco di una telecamera, barrette di cioccolato dipinte sul cemento, simbolo, a suo dire, della commercializzazione dell’arte e della vita. Tavolette in cemento che, proprio perché fatte di un materiale resistente e pesantissimo, non possono essere acquistate da nessuno.
Con l’arte cercava di attirare l’attenzione dei suoi compatrioti sulla politica di Putin e i problemi della società russa. Si definiva come un “anarchista”, per il quale disegnare era vivere. Alla domanda su che cos’è la cultura, rispondeva “un sistema di divieti”…
Peccato che non potremo vedere la continuazione della storia.
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Simonetta Sandri
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