Dopo la pubblicazione, in questa rubrica, dell’articolo Per un’ecologia della parola, Massimo Angelini mi ha onorato col mandarmi in dono un suo libretto di cento pagine sullo stesso tema, pubblicato dalla sua casa editrice Pentàgora di Savona. L’ho trovato prezioso e ne raccomando la lettura.
La sostanza è che ecologia ed etimologia della parola finiscono per combaciare. La parola come ambiente storico sociale che sovrintende allo sviluppo delle funzioni psichiche superiori secondo la lezione vygotskijana. Un ambiente, anche per questo, da tutelare e da riabilitare per ritornare, come scrive Angelini a ‘sguardare’, a rivolgere lo ‘sguardo’ in profondità.
Il sale è il capitolo in cui spiega la differenza tra ‘conoscere’ e ‘sapere’. “Voi siete il sale della terra” sono le parole che Matteo nel Vangelo attribuisce al Cristo, il sale che verrà gettato e calpestato dalla gente se dovesse perdere di sapore. Il sale che rende sterile il terreno, ma non la conoscenza. Sapere, ci ricorda Angelini, viene dal latino sàpere, che deriva da sale e, dunque, significa ‘avere sapore’, perché il sale conferisce sapore alle cose e ne esalta il gusto, mentre senza sale il cibo è insipido. Così la conoscenza che non si traduce in sapere isterilisce, allo stesso modo del sale della parabola evangelica.
Se la conoscenza chiede di apprendere con l’intelletto, la sapienza pretende di gustare in profondità, di ‘assaggiare’. Tutte parole tra loro etimologicamente imparentate. Da sapere non vengono solo parole come ‘assaggiare’ e ‘sapidità’, ma anche ‘sapienza’ e ‘saggezza’. Insomma o si conosce con tutto noi stessi o la conoscenza resta solo un orpello, al massimo fonte di erudizione. Della conoscenza occorre farne esperienza diretta, sensoriale, sapere qualcosa implica che va assaggiato, toccato, esperito, provato, sentito. Del resto ormai ce lo dicono anche le ricerche più recenti delle neuroscienze (è sufficiente leggere Lo strano ordine delle cose di Antonio Damasio), Angelini ci ricorda che si conosce con l’intelletto, ma si ‘sa’ attraverso l’esperienza dei sensi.
La cosa è bella, perché ci induce a considerare che siamo ‘individui’, vale a dire ‘indivisibili’, che non possiamo essere scissi in spirito e carne, in anima e corpo, che non ci è permesso separare la mente dai sensi, che sono i canali attraverso i quali apprendiamo. Dobbiamo accettarci così, nell’interezza della nostra unità. Per essere noi stessi non abbiamo la necessità di rinunciare alla nostra ‘individualità’, di indossare la maschera che ci nobiliti come ‘persone’ sul palcoscenico della vita quotidiana, per dirla con Erving Goffman.
Può accadere di conoscere tanto, di essere imbevuti di conoscenza e non sapere nulla, perché se la conoscenza non si esperisce nella nostra carne, non si traduce in sapere.
È la questione della presenza fisica a scuola, che è assenza del corpo negli apprendimenti. Si possono passare anni a scuola a conoscere, a conoscere molte nozioni e a leggere molti libri e uscire dalla scuola vuoti di sapere, perché l’ascolto, lo studio, la lettura non sono passati attraverso l’esperienza diretta, non hanno percorso la nostra carne. La parola ‘conoscere’ contiene il greco nous, come l’inglese ‘to know’, conoscere e ‘knowledge’, conoscenza. In greco nous è la mente, l’intelletto: conoscere è apprendere con l’intelletto. Ma apprendere con l’intelletto non significa di per sé ‘sapere’ e, se la conoscenza non muta in saperi, la scuola fallisce il suo compito.
Nella conoscenza l’intelletto sopravanza il corpo che lo ospita, il mediatore della relazione tra la mente e l’ambiente, il luogo delle appercezioni nella molteplicità degli eventi che viviamo. Sapere è l’equilibrio raggiunto tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori di noi, per citare Jean Piaget, fondatore dell’epistemologia genetica, come tutti gli esseri viventi tendiamo all’omeostasi, ed è questa tensione all’equilibrio tra dentro e fuori che è all’origine del sapere.
Spesso si sente parlare in maniera sprovveduta di ‘competenze’. Spaventa il passaggio dalla scuola della conoscenza, quella delle nozioni, alla scuola delle competenze, come se le competenze fossero la traduzione utilitaristica della conoscenza, anticamera dello sfruttamento di uomini e donne. Eppure la ‘competenza’ è la chiave del percorso dalla ‘conoscenza’ al ‘sapere’, attraversando le praterie della ricerca, è dunque libertà.
‘Competenza’ discende dal latino petere, chiedere, domandare, preceduto dal prefisso cum. Chiedere insieme, interrogarsi insieme, per poter camminare uno accanto all’altro, per andare verso un medesimo punto.
Mai c’è stato un tempo in cui la ‘competenza’, il sapersi interrogare insieme, per procedere uniti fosse indispensabile come ora nel nostro. Invece è proprio la competenza che spaventa, che viene osteggiata, mentre l’ignoranza trionfa. Cum-petere significa saper chiedere, sapersi interrogare, essere capaci di formulare le domande giuste, ed è questa la sfida della nostra epoca, se vogliamo incamminarci alla ricerca delle ‘giuste’ risposte, che non è detto, popperianamente, che siano quelle vere.
Chi non è competente è ‘ignaro’, dal latino gnarus che significa esperto, pratico, preceduto dal prefisso privativo in. ‘Ignaro’ è chi non conosce e per questo non può che ‘ignorare’ le domande da formulare, non sa interrogarsi per poter procedere verso il sapere. Il nostro tempo brulica di risposte quanto è avaro di domande e la nostra scuola non è meno responsabile. Ma gnarus per i latini ha un’altra peculiarità, quella di essere affine a ‘narrare’. È gnarus chi è consapevole in quanto ha fatto esperienza e di quella esperienza è divenuto ‘gnarus’ , è divenuto il narratore, perché se non c’è l’esperienza non c’è neppure la narrazione. Non possiamo narrare i saperi se quei saperi non appartengono alla nostra esperienza, se cioè di quei saperi non siamo esperti.
Sono le scuole i luoghi deputati ai saperi degli esperti, a narrare lo scibile umano, non per tramandarne la memoria e neppure per erudite citazioni, ma per divenire a nostra volta i protagonisti di questa narrazione.
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Giovanni Fioravanti
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