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Daniela Santanchè (Santadechè, per Roberto D’Agostino) fa il presepe. Lo fa anche Giorgia Meloni.
Matteo Salvini, invece, è in presa diretta nientemeno che con la madonna di Medjugorjie per attaccare il premier Giuseppe Conte (bis): “Per chi crede – ha detto a Porta a Porta da Bruno Vespa – la madonna ha dato un messaggio: le persone si giudicano dallo sguardo. Conte ha lo sguardo di chi ha paura e scappa”, parlando a proposito del meccanismo europeo di stabilità, il Mes.
Inevitabili le reazioni sui social.
A Propaganda Live, la trasmissione tv condotta da Diego Bianchi, qualcuno ha fatto presente al leader della Lega: prima le madonne italiane.
Non è stato da meno Maurizio Crozza che, sull’onda dell’autarchia mariana, gli ha maliziosamente suggerito la madonna di Loreto. Suggerimento subito ritirato perché la madonna è, notoriamente, nera.
Sono solo gli ultimi episodi di un utilizzo a piene mani di simboli religiosi del cristianesimo che dura da mesi: dal cuore immacolato di Maria, ai crocefissi.
È noto il senso che, in netta prevalenza, esponenti della destra italiana da tempo attribuiscono alla riproposizione dei simboli religiosi, funzionali alla riaffermazione orgogliosa di un’identità di popolo, nazione, cultura.
Identità che rischia la diluizione, lo smarrimento, l’irrilevanza, in un processo di globalizzazione che, contrariamente alle euforiche premesse, sta ingrossando le schiere degli sconfitti più che dei vincitori (almeno in Occidente).
Come conferma anche l’ultimo rapporto Censis, basta guardare il retroterra sociologico di chi sostiene, in termini di consenso, la riproposizione di un sovranismo in opposizione a processi d’integrazione ai più vari livelli: europea (sempre più sinonimo di banche e establishment), sociale, culturale, etnica, religiosa.
Così riprendono quota slogan tesi a sdoganare la fierezza di essere parte di un’identità da rivendicare, tutelare e difendere. “Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”, ha gridato la numero uno di Fratelli d’Italia lo scorso 18 ottobre a Piazza San Giovanni a Roma.
Parole, analisi e teorie, che da tempo si stanno saldando, fino al pericolo agitato della “sostituzione etnica”, e che fanno presa in un brodo sociale di paure (anche abilmente alimentate da una possente macchina organizzativa) che contraddistinguono il nostro tempo.
Non è facile capire come si possa argomentare un controcanto che abbia chance di successo a una narrazione che, nonostante chi ancora si ostina a sminuirne i più che prevedibili esiti, poggia su un terreno storico particolarmente fertile, sta mietendo consensi e, a quanto pare, può contare su una potenza di fuoco assolutamente da non sottovalutare.
Sul terreno dei simboli religiosi, si potrebbe provare con maggiore e paziente decisione a smontare l’utilizzo strumentale che se ne sta facendo.
Chi utilizza il presepe come simbolo d’identità o come bandiera da contrapporre ad altre identità avversarie, dimostra di non comprenderne il significato, snaturandone e capovolgendone il messaggio.
Lo dicono teologi e biblisti.
Per il vangelo di Luca il presepe – “mangiatoia” – è il venire al mondo del salvatore che si rivela ai pastori, non nel senso bucolico e consumistico troppe volte abusato, con tanto di bestiario variamente e coreograficamente allestito: pecore, galline, oche e altra fauna da cortile.
Pastori sono gli “irregolari”, che non sono i buoni credenti regolari del tempo.
Scrive il teologo Andrea Grillo: “La tensione, in quel testo di Luca, è tra la grandezza del Signore e la piccolezza umana che può riconoscere la gloria di Dio solo attraverso la profezia dell’irregolarità dei pastori”.
Nell’evangelista Matteo la dose sarebbe addirittura rincarata.
“La tensione – prosegue il teologo – è tra la stella e i magi che la seguono, nella loro condizione di stranieri, e l’ostilità viscerale dei residenti regolari e dei Governatori”.
Se leggere il testo biblico con aderenza al senso delle parole vuol dire questo, allora il presepe significa letteralmente che ultimi, stranieri e irregolari, sanno riconoscere Gesù, mentre i potenti (Governatori), regolari e uomini perbene, cercano di ucciderlo.
Altro che “soprammobile borghese” – prosegue il teologo – o vessillo identitario da affermare orgogliosamente in senso escludente e oppositivo.
Il presepe è una provocazione, cui si cerca ancora di mettere il silenziatore proprio perché è una provocazione spiazzante, urticante.
Non quindi la coreografia natalizia di un’italianità fieramente cristiana, ma un messaggio anti-identitario di un dio che si spoglia della propria onnipotenza per manifestarsi agli ultimi, gli esclusi, gli stranieri, gli irregolari.
E lo fa venendo al mondo in una mangiatoia perché, come diceva Elios Mori, per loro (Giuseppe e Maria) non c’era posto altrove. E questo non esserci posto per il salvatore è tuttora il monito più dirompente del presepe di San Francesco a Greccio, come messaggio di pace e di salvezza per l’umanità intera, anche per chi non siede a tavola.
Discorso analogo andrebbe fatto per la morte in croce di Cristo.
Un Dio che prima si fa carne (il cristianesimo è l’unica religione al mondo), cioè l’infinito che si fa finito, e poi – da innocente – accetta, impotente (l’onnipotente) di morire (cioè l’infinito che finisce) in croce come un delinquente.
Cosa c’è di esaltante identità in questa manifestazione estrema di impotente amore, che sul punto di spirare chiede di perdonare i suoi assassini perché non sanno quello che stanno facendo?
E sarebbe bastato ascoltare bene quelle parole per evitare secoli di antisemitismo anche nella chiesa.
Uno che tempo prima aveva detto ai suoi dodici che il vero merito non è tanto quello di amare i propri amici, quando di riuscire ad amare i nemici.
E così, fedele in tutto e fino alla fine, anche sulla croce ha parole di perdono-amore per i propri aguzzini.
La croce più che un segno da usare come una clava identitaria, è il culminante e sconcertante esempio di spoliazione dell’identità; un’ennesima testimonianza di povertà, come avrebbero detto Giacomo Lercaro e Giuseppe Dossetti.
Se, allora, tutto questo ha un senso, perché non si sentono le voci – non tanto dettate dal rancore ma comunque pubbliche – di conferenze episcopali, preti e associazionismo cattolico, per sconfessare quest’uso bestemmiato di simboli religiosi del cristianesimo?
Perché si assiste, invece, al loro clamoroso, esibito e ostentato capovolgimento semantico, funzionale a un discorso la cui portata complessiva non ha alcuna aderenza al testo biblico?
Qui non si tratta della solita divisione nel cattolicesimo tra progressisti e conservatori, ma del significato letterale della radicalità evangelica, che irrompe nelle coscienze come una vera e propria provocazione rispetto a ogni perbenismo accomodante e, ancor meno, operazione di potere.
O deve forse bastare la voce di Camillo Ruini, che usa parole di dialogo con chi torna a usare il cristianesimo con toni da crociata?

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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